C’era una volta, e questa volta è il 1989.
C’era allora, una guida firmata Zanini – Coltri.
“Ceraino Valley, arrampicate alla rocca di rivoli”: il titolo.
Lo schizzo dei settori, le righe delle vie, il nome, il grado. Nulla è cambiato in questo senso, le guide, ancora oggi, si fanno così!
Poco meno di 90 itinerari sono recensiti con cura. Leggendo le descrizioni si sente forte il “mi interessa”, il “me ne curo” del relatore. Di cosa? Di che? Direte voi…
Delle vie, certo, ma soprattutto del lettore, del ripetitore.
Quanto di più lontano del “me ne frego” che sembra caratterizzare molte pubblicazioni odierne. Manco le falesie fossero cantieri! Come se il dire male o il non dire (che poi è la stessa cosa) di alcuni dettagli… non avesse ricadute sui ripetitori.
Di certo, in questi trent’anni, non è l’uomo a esser cambiato. È cambiata la mole di itinerari da rendicontare, e forse, è solo questo che rende difficile mettere su carta l’antico modo di preoccuparsi del prossimo…
Ma, tornando a “Ceraino Valley”, verso la fine della guida, abbracciata dagli scritti di Coltri e del compianto Marras, è incastonato un racconto – una perla – di Stefano Tedeschi, detto “Pinocchio”.
Scrive Stefano e, parlando di tutti noi arrampicatori, quelli di ogni tempo, trasforma una parete – Ceraino Valley – in una “Chiave d’argento”.
“L’oblio si era attaccato a quella strana parete bianca, bagnata dal grande lento fiume; gli si era attaccato come l’edera si aggrappa alle vecchie case di campagna.
Così era rimasta là, dimenticata e silenziosa, forse da milioni di anni, aspettando che qualcosa di vivo si muovesse, pensando e sognando, su di lei.
Ce ne accorgemmo, alla fine, dopo averla distrattamente guardata cento volte dalle nostre automobili, diretti verso le grandi montagne, più a Nord. Da prima non l’avevamo amata molto: «Roccia cattiva» dicevamo, «troppi tetti, non si chioda… strapiomba»! Però era là, troppo misteriosa, troppo bianca… scoglio stupendo del verde fiume che le scorreva sotto!
Allora noi, squattrinati arrampicatori, sognatori, avevamo cominciato a capire che occorreva una chiave, una chiave d’argento per aprire la porta di quel nuovo mondo verticale. Pian piano, abbiamo trovato la chiave, l’abbiamo girata nella serratura della nostra fantasia, e i nostri occhi hanno finalmente intravisto la realtà oltre la porta chiusa.
Adesso apparivano fessure, striature, lame, fori, rugosità e mille pieghe su quella pelle millenaria, ove poter posare le falangi delle nostre dita.”
Prosegue Stefano, prosegue con “esattezza”, con le parole giuste, per raccontare di un episodio che da solo, nel descrivere il “clima” del 1989, parla anche di un tempo eterno che riguarda tutti, inclusi quelli che arrampicheranno nel futuro.
Nel suo racconto i protagonisti diventano mitici: il postino si trasforma nel “Principe degli scombinati” e il mercenario Bettio smette di rispondere alle leggi di Newton.
“Alla fine, siamo lì che strisciamo, salendo lentamente con la nostra coscienza di uomini-insetti, carichi non solo di ferraglie (per supplire alla mancanza di ali), ma anche di pensieri e sogni che volano più in alto di mille uccelli. Quando nel pomeriggio, scorticati e stanchi, non riusciamo più a salire, ci guardiamo intorno felici per quel primo piccolo confine conquistato; a sinistra, il grande fiume silente scorre pigramente verso il suo sogno di mare.
Con i nasi all’insù guardiamo ridendo, ma pensierosi, l’altro confine più alto, quello più vicino al cielo misterioso. La chiave d’argento ha funzionato, ha fatto ruotare i cardini della nostra immaginazione, permettendole di entrare libera a caccia di avventure, di sogni, di mille nuove scoperte sulla rupe bianca bagnata dal fiume millenario.
Quanti riusciranno ancora a trovare la grande chiave d’argento?”
“Pinocchio” chiude il suo pezzo così, con una domanda che deve essere letta come un augurio.
Son passati degli anni – più di trenta – e oggi Stefano lo si può incontrare più facilmente a Verona, nella sua “storica” Stamperia di via Pigna 10, che in falesia.
L’ho incontrato recentemente in quel posto magico dove quotidianamente lavora alle sue incisioni.
Quella chiave, la sua, è ancora lì con lui.
Mi dice: «È una chiave che apre molte altre porte nei misteriosi reami della natura che sempre ci accoglie… Spero che serva a tutti i cari amici che mi hanno accompagnato sui sentieri della vita».
Credo non serva aggiungere altro… se non un: “Grazie Stefano”.
Andrea Tosi
N.B. Articolo scritto per la rubrica “C’era una volta” del King Rock Journal.
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