Pori “busi” di Avesa.
Nei primi anni ‘80 un gruppo di scalatori cominciò a praticare il “gioco arrampicata” sulle pareti argentee dei “Busi Bassi di Avesa”.
Traversi, arrampicata con corda dall’alto, movimenti atletici per risolvere passaggi problematici come il mitico “Strassabuele” tutt’ora banco di prova dei boulderisti.
“Non si é mai rotto un appiglio” mi dicono gli “storici”. La compattezza del tenero calcare aveva creato un’aspettativa di fiducia sulla tenuta degli appigli.
Domenica scorsa mi trovo ai “Busi” per l’uscita in falesia di un corso di arrampicata.
Tutto ad un tratto un grosso blocco di roccia si stacca dalla parete e si schianta sulla coscia di un mio allievo, fortunatamente senza gravi conseguenze.
“É da 30anni che vengo qua e non ho mai visto staccarsi una pietra” dice scosso un padre che é li a scalare coi figli.
Salgo la via e mi accorgo subito che é stata lesionata da evidenti segni di ramponi e piccozze.
La leva che una piccozza fa su un blocco di roccia é paragonabile al “leverino” che si usa per disgaggiare i blocchi instabili.
Penso che il dry-tooling (scalata su roccia con piccozze e ramponi) sia incompatibile con l’arrampicata per tre ordini di ragioni:
La prima, estetica: é orribile vedere una parete rigata e graffiata.
La seconda, per evitare che chi scala si ferisca le mani visto che piccozze e ramponi rompono la roccia con spigoli taglienti.
– La terza é quella più importante: questa pratica può rendere insicuri e instabili blocchi di roccia pregiudicando l’incolumità degli arrampicatori.
Probabilmente questa vicenda è stata causata solamente da leggerezza e superficialità.
Sarebbe bello lavorare tutti insieme per condividere un forte messaggio con tutta la comunità degli arrampicatori: è indispensabile preservare sempre la bellezza delle nostre falesie e garantire l’incolumità di chi arrampica.
Tommaso Dusi