La foto è datata, desaturata e cotta dal sole. In primo piano un arrampicatore impegnato in un movimento dinamico. La parete è in ombra ma il terreno sottostante, il parterre, è già al sole. La roccia è molto compatta e le striature verticali grigio scuro che solcano la parete gialla ne rivelano l’aggetto: supera di molto la verticale.
Sul lato destro della fotografia, un tassello a espansione fissa sulla pietra una placchetta a forma di “L”. È, con la roccia, la parte fissa della foto. È la sicurezza, la certezza incrollabile che attende di ricevere una corda nel moschettone a leva curva.
Sul lato sinistro c’è lui, un uomo che lotta contro la gravità con il solo nodo legato in vita, a protezione dell’eventuale sconfitta. Il vuoto sotto i piedi rivela un percorso lungo che strapiomba con continuità. Si aggrappa con la mano sinistra a un buco che si apre improvviso nella parete compatta. È un foro così inatteso che sembra scavato “ad hoc” da chi ha infisso anche le protezioni per la pratica del free climbing. L’arrampicatore esprime energia ma sembra sul punto di essere disarcionato da questa parete imbizzarrita che, per essere salita, richiede forza nelle braccia e avambracci resistenti. Il dinamismo, la vita, è evidente così come l’armonia del gesto. La gamba sinistra cerca nel vuoto di bilanciare un equilibrio precario e in via d’evoluzione. Il lato destro del corpo, la mano, il piede sono la cerniera attorno al quale il fisico vorrebbe ruotare lontano dalla parete. Ma lui vuole altro: vuole salire. Lo sguardo è fisso alla mano sinistra che ha appena raggiunto un nuovo appiglio.
È giovane, capelli biondi a caschetto con scriminatura centrale. Al polso della mano sinistra, intrisa di magnesio, porta un orologio sportivo in gomma nera. Maglia verde acido a maniche corte e fuseaux viola aderenti a mezza coscia, in tinta con la corda. S’intravede il nodo che lo lega, attraverso l’imbrago, al suo assicuratore che, con le spalle alla parete, lo segue attento con lo sguardo: è in agguato, in attesa che il dinamismo si fermi. Ha avvicinato la corda alla base della parete. I teli, che di solito la proteggono dalla polvere, sono abbandonati, vuoti a pochi metri di distanza. Con i piedi ben saldi al terreno, è pronto a bloccare la corda nel caso la mano dell’arrampicatore dovesse cedere.
Tra il braccio sinistro e la gamba destra dell’arrampicatore si vede la corda passata nell’ultima protezione, un rinvio, uguale a quello che lo attende pochi metri più in alto. Non ha coppie di moschettoni all’imbrago, deve averli messi sulla via in un tentativo precedente. È almeno al secondo giro. Si sta allenando, facendo ripetute su questo itinerario. Il materiale utilizzato, la moda del periodo, ci riporta agli anni immediatamente precedenti il secondo millennio. La fettuccia corta, la forma dei rinvii, le scarpe Lasportiva Kendo e il piccolo sacchetto di magnesio, non possono mentire sulla data di questo scatto che congela l’atleta nel mezzo di un combattimento incerto contro la fissità della roccia.
Ero rimasto folgorato da questa foto, che oggi mi torna tra le mani.
Fatto è che a quel tempo volevo conoscere e capire che cosa mi attirava di questo scatto: la roccia? lo stile? l’esser “atleta”?
E capirlo, mi è costato un bel po’ di miscela.
Venti millilitri d’olio in un litro di super, questa era la miscela che alimentava il cinquantino blu che avevo sotto il culo. Mi muovevo con un Ciao della Piaggio, “usato ma tenuto bene” (avrebbe cantato, di lì a un paio d’anni, Luca Carboni)
Beveva poco il motorino e così diventava più facile fargli fare tanta strada.
Le mie finanze erano quelle di una matricola/lavoratore part-time. Spendevo solo nell’arrampicata e dal benzinaio.
Il pieno, la corda, infilata in un sacco verde scuro di plastica dura marchiato Converse, appoggiata tra i pedali del Ciao, e uno zaino sulle spalle con scarpette e magnesio, erano tutto il mio mondo in movimento su quelle due ruote.
Tutto per cercare lui, per vedere lui, per imparare da lui.
Finalmente poi l’avevo incontrato, ai “Busi di Avesa”, ma la sua fama mi aveva raggiunto ben prima. Il suo nome era spesso tirato in ballo per coronare le sconfitte mie e dei miei amici, tutti apprendisti arrampicatori.
Quando un passaggio non ci riusciva, quando una sequenza ci respingeva, si invocava il suo intervento: “qui, per passare ci vorrebbe lui”.
Prima di allora, prima di quell’incontro casuale, mi univo alla loro voce senza sapere bene chi e quale arte stavo invocando.
Da quel giorno in poi, su quel fuocherello che mi aveva distolto da altri sport, lui, schivo, sparse benzina.
E lo fece a suo modo, tra un boulder e un traverso, parlando senza dire una parola. Diceva tutto il suo corpo, il suo modo di stare in parete.
Bisogna dire che ai Busi bassi di Avesa non ci sono gradi, ci sono solo passaggi che si tramandano oralmente. L’aedo che avevo di fronte raccontava di tutta l’armonia che serve per incontrare la roccia in modo decente.
La sua scalata cantava di un incontro rispettoso, quasi chiedesse il permesso prima di entrare in una casa d’altri. Si presentava alla roccia mettendo il suo tappetino in fibra di cocco sotto il boulder. Rassicurava la parete con movimenti gentili: sarebbe salito leggero e solo dopo aver pulito con cura la suola delle sue fide Lasportiva Kendo calzate strettissime. Un’altra forma di cortesia la manifestava nel ripulire, spazzolando con cura, gli appigli che da lì a poco avrebbe stretto con decisione. Infine, con la punta dell’indice bianco di magnesio, andava a toccare gli appoggi che aveva intenzione di usare. Chissà, era forse un modo per avvertirli che sarebbe passato lieve di lì a poco.
Io lo osservavo in questa sinfonia che andava in scena.
“L’allegro” iniziale era un movimento a due mani per pescare magnesio nel sacchettino giallo/fucsia. Seguiva poi il passaggio di ogni singolo dito nel palmo della mano opposta: palmo usato quasi come un temperino per affilare le dita prima dell’uso. Infine, ed era il segno che stava iniziando “l’adagio”, si volgeva fronte alla parete, le braccia distese lungo i fianchi, il dorso della mano rivolto verso l’alto e il gesto ritmato del divaricare le dita. Il pianista era pronto.
“L’andante con brio” partiva con la presa sicura sugli appigli di partenza e un preciso uso dei piedi. Le caviglie, incredibilmente elastiche, non sembravano avere i limiti delle articolazioni umane: per assecondare l’equilibrio richiesto dagli appigli, riuscivano a flettersi ad angoli così acuti capaci di far aderire sempre il bacino alla parete.
Per me era musica. Vederlo salire era una sinfonia leggera suonata per arrivare al “top” di quelle sequenze boulder “eliminanti”, stabilite nel tempo dalla pratica dei climber.
Sequenze dai nomi coloriti andavano in scena così: “Strassabuele”, “Compressione”, “Rugginetta” e “Rebalta Maria”.
Lo guardavo ammirato, oserei dire innamorato. Figura esile con arti che sembravano un po’ troppo lunghi per il tronco che li univa. Magro e definito nelle fibre muscolari, dita enormi e piedi prensili da quanto la caviglia era in grado di orientarli sugli appoggi.
La sinfonia, arrivata alla presa più alta della sequenza, prevedeva sempre una breve scalata in discesa su appigli generosi che lui trasformava in un “minuetto scherzoso”, perdendo ogni grazia nell’affrontare il ritorno al suolo con lo stile di un allegro gibbone.
In “finale”, la gioia di recuperare con un saltello il proprio punto di partenza: lo zerbino. Quasi un ginnasta che a fine esercizio riunisce i piedi e le gambe prima di fare un inchino alla “roccia”.
Ci vedevo tante cose, ma in particolare l’atleta che impara ripetendo in modo sistematico le sequenze e la fatica che rendeva ogni ripetizione diversa dalla precedente.
C’era una lezione da imparare ed è per questo motivo che spendevo i pieni del Ciao tra casa mia, Avesa, Ceredo e la palestra sotto le gradinate del Santini: l’archetipo del King Rock.
Il fuoco mi divampava dentro alimentato da questo combustibile. L’arrampicata, nel suo punto d’origine, per me, era questa magia.
Ancora oggi (dopo più di trent’anni di pratica, dopo trent’anni di evoluzione che ho visto passare sotto le mie dita) quando sono in difficoltà verso tutto quello che attorno a questo sport si è sviluppato, con il pensiero torno al giorno in cui l’ho visto in azione, al punto d’origine della mia passione per quel gesto che inizia con lo “staccare il piede da terra”.
Per questo lo chiamo ancora “maestro”. Per tanti versi, è stato un padre che mi ha insegnato “mostrando”, senza dire una parola.
Lui è Nicola Sartori, per tutti: Nicolino.
E se penso al suo imbarazzo quando, alla fine di quel primo incontro, gli ho chiesto un autografo, non ho difficoltà ad immaginare la sua faccia quando arriverà a leggere queste righe.
Nicola, questo è un grazie.
Andrea Tosi
P.S.
La foto storica introduttiva è la scansione di uno scatto fatto da Emanuele Sartori che immortala il fratello Nicola Sartori sul passaggio “chiave” del secondo tiro di “Apokatatasis” (8a+). Era il 1993. In quell’anno questo scatto era apparso su un giornalino locale a corredo di articolo che parlava di Nicola e dell’arrampicata sportiva. C’erano anche altri scatti… ma se oggi scalo è perché in questa foto ho visto un ritmo e un’armonia che ancora oggi mi diverto a cercare.