Il destino di Èscalo

Aveva smesso di remare a poca distanza dalla riva e le onde avevano dolcemente spinto la barca per gli ultimi metri. Era rivolto a prua, in piedi, a gambe larghe. Alle sue spalle il sole si preparava a rinfrescarsi nelle acque dell’Egeo e la brezza, che aveva iniziato a scacciare l’umidità della sera, gli carezzò la peluria delle braccia e del petto.

Lo sciabordio dell’acqua sulla chiglia e il garrito di qualche gabbiano non coprivano le risatine nervose e compiaciute della giovane pastorella seduta a poppa, ancora incredula di essere stata invitata dal principe Èscalo, con promesse e parole dolci, ad una gita sull’isola di Sària.

Pur essendo un principe portava la tunica fissata su una sola spalla, alla maniera delle persone comuni, un modo per avere più libertà di movimento nel governare la barca e per lasciare in vista spalle robuste e pettorali ben formati. La pelle era piuttosto chiara e risaltava contro il nero intenso dei corti capelli ricci e dell’accenno di barba. Più alto della media, aveva zigomi marcati e occhi neri leggermente distanziati. Mento e naso volitivi e labbra rosa intenso ne completavano il fascino.

La ragazza aveva un corpo sottile ma tonico che, insieme alla pelle olivastra liscia e vellutata, creava un acceso contrasto con il peplo logoro e ingiallito tenuto in cintura da una semplice corda. Il viso era ovale, incorniciato da capelli castani raccolti da un sottile nastro, con un mento leggermente appuntito, labbra rosso scuro, naso dritto e occhi verdi e caldi. Una bellezza limpida e genuina.

La barca si incagliò sulla ghiaia del fondale con un brusco e breve crepitio. Èscalo scese e la tirò in secca. Respirò la salsedine.

La breve spiaggia, di ghiaino grigio e ciottoli bianchi, si trovava in fondo ad una piccola baia riparata dalle mareggiate. Poco oltre si ergevano alte pareti rocciose.

Il principe, tra aromi di timo e di origano, condusse la pastorella per mano oltre un sipario di mandorli e ulivi fino alla parete più vicina, lì dove sgorgava una scintillante fonte al cui fianco si apriva una grotta alta poco più di un uomo, poco profonda ma sufficiente ad accogliere comodamente un giaciglio. A quell’ora era interamente illuminata dal rosso del sole calante. Èscalo accese un fuoco, arrostì del pesce, versò del vino e si apprestò a godere delle delizie e dei piaceri della notte.

Il mattino dopo, lasciata la giovane nei pressi del primo gregge di pecore incontrato, rientrò a palazzo. 

Come sempre non provava il minimo rimorso nell’aver illuso, lusingato e abbandonato la ragazza pur sapendo che, come le altre prima di lei, sarebbe d’ora in poi vissuta nella vergogna e nel dolore di un amore impossibile.

La piccola isola, su cui Èscalo era solito appartarsi con le fanciulle di cui si invaghiva, era disabitata e rocciosa e sorgeva oltre un braccio di mare che la separava dalla più grande Kàrpathos, dove si trovavano coltivazioni, pascoli, mercati e la città con il palazzo reale.

Gli dei sono permalosi e vendicativi quando ricevono offese da parte dei mortali, ma sanno anche essere indulgenti se i peccati non li riguardano direttamente.

Èscalo questo lo sapeva bene, come sapeva che Sària non vedeva di buon occhio questo suo continuo approfittare di semplici e ingenue ragazze. Così dopo ogni avventura, per placarne la possibile ira, non mancava mai di offrirle in sacrificio un capretto o un agnello.

Quel mattino però, forse ancora sotto l’effetto del vino, o forse perché il profumo della pelle della pastorella l’aveva inebriato più del solito, se ne dimenticò: la dea si sentì personalmente offesa e decise che l’affronto non poteva essere lasciato impunito.

Sària però, dea di una piccola isola visitata da pochi pastori e marinai umili e ossequiosi, non aveva esperienza con le pene da infliggere agli uomini e si recò a chiedere consiglio alla sorella più esperta Afrodite.

Afrodite la ascoltò e inorridì nel sentire come il giovane principe si era fatto beffe di Amore e delle fanciulle che seduceva e lusingava, per poi abbandonarle allo struggimento. Consigliò quindi di punirlo con la stessa sofferenza.

Sària aveva una figlia bellissima, la ninfa Catena, dalla pelle candida, i lineamenti dolci, una cascata di riccioli biondi e occhi grigi e trasparenti. Afrodite la convocò e le ordinò di entrare nei sogni di Èscalo e di fargli provare dolcezze tali da innamorarlo perdutamente.

Quella notte la ninfa si infilò tra le lenzuola del principe e iniziò a massaggiarli delicatamente le spalle con le mani morbide e a sfiorargli la schiena con i seni. Poi lo mise supino, gli sfiorò con le labbra il petto e il collo, gli si portò sopra e accomodò le gambe attorno alle sue cosce. Mentre sinuosa si accingeva ad accoglierlo, con le mani raccolse i capelli per mostrarsi chiaramente in viso e, non appena lui alzò gli occhi, lo trafisse con uno sguardo trasparente e gelido.

Il principe si svegliò sconvolto, sudato, con il cuore che gli usciva dal petto ed in preda ad un profondo turbamento. Era solo e la stanza tutto intorno era fredda e aliena.

Si alzò di scatto e corse alla finestra. La notte era buia, quieta e silenziosa, soltanto dalla strada che conduceva al porto arrivava il baluginìo di una lampada. L’ombra che la reggeva raggiunse una barca e vi salì. Il principe riuscì a scorgere una cascata di riccioli, poi la barca prese il largo in direzione dell’isola di Sària.

In quel momento una folata di vento spense lanterne e torce dentro e fuori il palazzo.

Èscalo, col cuore ormai rapito, scese a tentoni le scale, aprì il portone, percorse al buio la strada del porto, salì su una barca e prese a remare. Per la prima volta traversava quel tratto di mare con in cuore non la dolce eccitazione dell’avventura ma con l’angoscia di chi ha visto negato il suo desiderio.

Remò con ossessione fino alla baia e ci arrivò alle prime luci dell’alba.

I primi raggi del sole spuntavano da dietro le pareti rocciose che rimanevano però ancora scure. Mentre portava in secca la barca scorse su una sommità la sagoma dei riccioli di Catena.

Si lanciò sulla parete, superò cenge e strapiombi, placche e traversi e raggiunse la cima ma, quando finalmente posò gli occhi sulla donna che l’aveva ammaliato, la ninfa svanì ed al suo posto rimase solo una catena di ferro fissata alla roccia.

Deluso tornò alla spiaggia, camminando tra cespugli spinosi e su sentieri duri di sassi mentre il desiderio montava sempre più ed era preda di una pena incontenibile. Si rifugiò nella grotta alcova di tante avventure. Ora gli sembrava solo un buco spoglio e umido, e aspettò l’alba.

Alle prime luci del giorno scese in riva al mare e si girò verso le pareti. Di lì a poco i raggi del sole disegnarono la sagoma della ninfa sopra una cresta frastagliata. Èscalo corse, risalì una ripida valle, si infilò in un canalone, strisciò in un diedro infinito, raggiunse la cresta ma di nuovo, appena allungò la mano per toccare l’amata, questa sparì lasciando ancora soltanto una catena fissata alla roccia.

La cosa si ripeté il giorno successivo quando Catena apparve in cima ad una guglia, e il giorno dopo ancora, con la sagoma della ninfa stagliata contro il cielo sopra una placca strapiombante.

Al settimo giorno Èscalo si rese conto di essere prigioniero di un desiderio che appariva sempre a portata di mano senza mai poterlo soddisfare. Allora batté tutta l’isola fino a catturare una piccola capra selvatica. La portò alla grotta per sacrificarla a Sària ed elevare alla dea una intensa preghiera, chiederle perdono e implorare di liberarlo.

Ansioso e concitato, aveva collocato con fatica nella grotta una grossa pietra da usare come altare e vi aveva acceso un fuoco a fianco. 

Ora doveva stendere la capra sulla pietra con la gola verso l’alto e poi recidere di netto le carotidi in modo che il sangue zampillasse verso il cielo prima di riversarsi sulla pietra, sulla terra e sul fuoco. La sua preghiera sarebbe così salita in alto assieme ai vapori del sangue e la dea non avrebbe potuto ignorarla.

Èscalo era assorto in questi preparativi, quando un vocìo proveniente dalle acque della baia lo distrasse. Curioso uscì dalla grotta, attraversò il breve assieparsi di mandorli e olivi e, quando sbucò davanti alla spiaggia, vide due figure femminili allegre e giocose che si godevano la frescura della sera sotto lo sguardo di una terza donna seduta con una postura pacata e solenne. Restò impietrito nel riconoscere la cascata bionda dei riccioli di Catena e il corpo sottile e tonico della pastorella mentre scherzavano e ridevano complici tra spruzzi d’acqua e di schiuma.

La dea Sària distolse per un momento lo sguardo dalle fanciulle e lo posò, altero e impassibile, sul principe. Poi voltò di nuovo la testa e continuò a seguire, con espressione compiaciuta e serena, i giochi delle due giovani.

In quell’istante Èscalo capì che la sua condanna era stata pronunciata e che sarebbe rimasto per sempre ai piedi di quelle pareti impervie ed inospitali, costretto ad inseguire Catena all’infinito e a raggiungerla solo per vedere l’illusione di un attimo svanire davanti ai suoi occhi.

Franco Zanella


Pubblicato

in

da