Non so che viso avesse, neppure come si chiamava…

Una foto non è mai solo un’immagine, dietro essa si celano momenti, personaggi e storie.
A volte si celano anche viaggi, fatiche e imprese.
Massimo Bursi si immerge in questo scatto di fine anni ottanta e riporta a galla una pagina romantica di alpinismo.

È impegnato nella “lotta con l’Alpe”.

Mi sembra alto, tonico, tutto muscolo e nervi, senza un filo di grasso. In plastica e precaria posizione su placca ripida e liscia.

Vestito con comodi pantaloni a quadrettini neri e carta da zucchero, abbinati con una frusta felpa celeste. Ai piedi indossa un nuovo paio di scarpette molto diffuse, usate dai professionisti, segno di un significativo investimento.

L’imbragatura, bassa ed alta, il materiale appeso, il casco, tutta attrezzatura molto vissuta fa pensare che lo scalatore abbia chiare origini nell’Est europeo. Il classico slavo, o slovacco, pochi soldi in tasca, tutto volontà, forza e coraggio che vuole lasciare il proprio segno sulle Alpi ed è a questo che gli servono i chiodi penzolanti dall’imbragatura.

Per la presenza dei calzini azzurri abbinati con il resto dell’abbigliamento, direi che potremmo datare la fotografia nella prima metà dei ruggenti anni 90, quelli dell’affermazione del free-climbing, come allora veniva chiamata l’arrampicata sportiva.

Lo vedo di profilo, la carnagione è chiara ma decisamente abbronzato, segno che ha passato molte ore in ambiente. Il viso denota preoccupazione, tensione: la bocca semi aperta, dà la misura del suo sforzo.

E subito parte un’emozione: il ricordo dell’amico Marco quando, anni fa, passavamo tutti i fine settimana ad arrampicare in Dolomiti, sulle vie più impegnative. Rivivo la tensione e le preoccupazioni che trasparivano dalle mimiche di Marco. È un momentaneo, intenso, flash-back che non rivivrò mai più.

Nella foto il viso, ma soprattutto la sua espressione, sprigiona una carica di forte umanità: ci vedo un uomo nel pieno delle sue forze, non troppo giovane, il volto è segnato, ma neppure troppo vecchio visto che non presenta ancora rughe.

La sua espressione tradisce la passione viscerale di chi vive un’avventura estrema. Mi rispecchio in questa fugace espressione di grande vitalità. Immagino il suo compagno di cordata, immagino gli amici del suo club alpinistico, la mia mente vaga, fantastico sul loro viaggio avventuroso sulle pareti del mondo e dagli obiettivi molto ambiziosi.

Immagino questo gruppo di amici squattrinati, scappare dai paesi dell’Est europeo con macchine Trabant o Skoda, viaggiare e divertirsi con pochi soldi a disposizione ma con idee chiarissime su dove andare e cosa fare.

I loro obiettivi sono pochi ma severi: Marmolada, Civetta, val Masino, Eiger e monte Bianco. Complice un allenamento rigorosissimo sulle loro sconosciute montagne; complice un’etica rigidissima, e per noi incomprensibile, fatta da pochi chiodi, da voli rischiosi e al limite, voli che arrivano e lasciano sempre un segno.

Ne ho visti come loro, se minacciava pioggia noi stavamo in tenda ma loro partivano sempre. Se trovavamo una placca sprotetta, noi tornavamo indietro o l’aggiravamo mentre loro, testa dura, proseguivano prendendosi tutti i rischi. Noi fighetti e loro audaci. Ci battevano anche alla sera, durante il terzo tempo, a suon di birre, vino e grappe!

Erano nostri coetanei ma appartenevano ad un altro mondo.

Tornando alla foto. La mano sinistra impugna un saldo e isolato appiglio, mentre la mano destra si intuisce essere appoggiata solo su piccole rugosità di grigia roccia calcarea, intorno a lui solo liscio. È in posizione raccolta, i piedi in piena plastica aderenza… si confermo, la mano sinistra, e solo questa, che sostiene tutto il corpo.

Sono quei passaggi, leggermente dinamici, dove devi passare veloce e leggero poiché se ti fermi a leggere la roccia, consumi le tue energie e non avrai più la spinta, dal basso, per andare oltre ed afferrare il buco risolutore. In quei momenti lo spirito di sopravvivenza deve essere più veloce dei tuoi pensieri, o per dirla secondo le neuroscienze il cervello rettiliano deve prendere il controllo rispetto alla neocorteccia e proprio non c’è spazio per il cervello limbico.

In queste situazioni o combatti e sali velocemente verso l’alto, o ti metti in fuga o in blocco per cercare di elaborare la tua strategia, ma potresti non avere il tempo necessario.

Sono emozioni forti che provi, che segnano irrimediabilmente la tua personalità.

È da capocordata? È da secondo? Sta iniziando un traverso? Sta terminando un traverso arrivando in sosta?

Per me è chiarissima la dinamica. Il fotografo, in sosta lo sta catturando con la sua macchina, mentre traversando arriva in sosta con le corde belle lasche che denotano una forte sicurezza nelle proprie capacità.

La presenza di due nuove moderne mezze corda, l’assenza del benché minimo filo d’erba, ma soprattutto il materiale appeso all’imbragatura mi dice che il nostro si sta muovendo su una grande parete calcarea decisamente impegnativa, così impegnativa da salire senza zaino o da lasciarlo ai compagni.

C’è una serie di “aggeggi” molto particolari appesi all’imbragatura, i tricam, che vengono usati solo quando la roccia presenta frequenti buchi irregolari e questo mi fa pensare ad alcune pareti dolomitiche… Potrebbe essere la parete sud della Marmolada, ma cosa importa?

Qui l’interesse è tutto incentrato sul nostro scalatore: non vi è cielo, non vi è vuoto, la fotografia cattura magnificamente un frammento di avventura, di vita piena di un appassionato, come me, solo nato al di là di un muro che da tempo finalmente è stato abbattuto.

Dietro alle quinte di un’immagine ritrovata, ovvero piccola storia di alpinismo attraverso e grazie ad una fotografia.

Da tempo questa fotografia mi aveva colpito. L’ho custodita su un vecchio computer e poi guardandola ho fantasticato, ho scritto, ho fatto correre la mia fantasia solo sulla base dell’immagine, di quell’istante infinito.

Poi, preso dalla curiosità, mi son messo in  caccia e, e grazie alla moderna tecnologia, sono riuscito a risalire al protagonista: Peter Ondrejović detto Becko, un fortissimo alpinista slovacco, nato nel 1963, formatosi sui Pilastri di Boemia e sui terribili Monti Tatra.

Nella foto è impegnato, in Marmolada, nell’apertura della via Fram, dal nome del rompighiaccio norvegese usato nelle storiche esplorazioni artiche e antartiche. La via Fram, per anni una delle più dure e temute della Marmolada, è stata aperta a più riprese fra il 1989 e il 1991 assieme a Igor Koller: molto più impegnativa e pericolosa della via del Pesce, giusto come termine di paragone.

Becko è un alpinista da noi assolutamente sconosciuto, ma assai famoso nel mondo slovacco, con un curriculum di prime salite e ripetizioni su tutto l’arco alpino, ed altrove, davvero impressionante.

Oggi avventuriero sempre in giro per il mondo, organizza viaggi avventurosi.

Fa parte del gruppo slovacco “Club di Arrampicata Geriatrica”. Il soprannome Becko significa “persona con un approccio speciale alla vita”.

Massimo Bursi


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