Dal “Dizionario dei termini in arrampicata” di Guide Dolomiti: tecnica di arrampicata che si mette in atto quando il piede, venendo a mancare un sostegno adeguato per mancanza di sporgenze nette, viene poggiato su un’ondulazione o su un tratto liscio di parete, in modo da sfruttare al massimo l’attrito (aderenza) della suola.
Dal latino adhaèrens da ad-haèrere: stare attaccato, appoggiato, vicino.
E nell’arrampicare in aderenza noi questo facciamo, questo cerchiamo: un equilibrio spalmando il piede, facendolo “stare attaccato” alla parete. Meno forza e più sensibilità perché arrampichiamo su un confine, forse superiamo un confine, diverso per ciascuno di noi: il modo più soggettivo di arrampicare, quello più legato alla nostra sensibilità e alla nostra esperienza; d’altronde aderisco a un’idea, a un partito, a una associazione perché conosco ma, io credo, principalmente perché mi conosco.
Arrampichiamo con maggiore sapienza (ma forse anche con minori certezze): le mani sugli appigli, i piedi a carezzare la parete alla ricerca del giusto compromesso che mi permette di calibrare inclinazione e spinta.
Arrampicare in aderenza significa toccare la pelle della roccia, vuol dire scalare senza alcuna mediazione, alcun filtro (buchi, fessure, spigoli) sull’essenza stessa della roccia, sulla sua pelle più liscia costruita nel tempo e dal tempo.
Il tutto acquista un che di sensuale quasi pelle contro pelle, incontro erotico e carnale con la materia, con la pietra.
I nostri piedi diventano una prosecuzione della roccia, della parete e noi stessi, per proprietà transitiva, diventiamo roccia, aderiamo al suo spirito, alla sua essenza, i filosofi direbbero al suo statuto. Arrampicando ad-erenti diventiamo in-erenti, quindi un essere insito, un appartenere essenziale alla roccia, come i mattoni e la malta che non aderiscono al muro, ma ineriscono al muro perché aderendo a qualcosa se ne diventa parte.
Forse per questo, secondo me, l’aderenza racchiude l’essenza stessa dell’arrampicare cioè fare corpo unico con la morfologia della parete, imitando lucertole e gechi, eleganti e sinuosi arrampicatori sul liscio e sullo strapiombo e, secondo il credo popolare, portatori di fortuna e simbolo di rinascita.
E quando arrampichiamo forse non cerchiamo la nostra fortuna, forse non inseguiamo il nostro destino? Quello che ci porta a scoprire noi stessi e il mondo che ci circonda?
Nel momento in cui “sentiamo” sotto i piedi l’adesione alla roccia entra in gioco il nostro cervello rettiliano (Paul MacLean), quello che più assomiglia a quello dei rettili, la sua parte più antica e primitiva quella che controllando, tra le altre, frequenza cardiaca, respirazione ed equilibrio garantisce, presiede alla nostra sopravvivenza: quindi arrampichiamo, più che da primati, da rettili.
Provate a guardare su un muro estivo, su di una roccia il movimento di un geco, di una lucertola quando salgono e poi confrontatelo con un video di arrampicata, accelerando la velocità: stop and go, saliamo a scatti e, proprio come fanno gechi e lucertole, ci fermiamo, guardiamo e ripartiamo alla ricerca di un destino, di una rinascita, di un “nuovo mattino”: ogni volta che stacchiamo il piede da terra.
“Nella pietra
sei pietra
con due piccoli occhi antichi
gli occhi della pietra”1.
Paolo Gaeta
1 Pablo Neruda, Ode alla Lucertola.