Il desiderio di un’etica si fa tanto più urgente quanto più il disorientamento manifesto dell’uomo, non meno di quello nascosto, aumenta a dismisura .
Martin HEIDEGGER, Lettera sull’«umanismo»,
È ancora possibile un’etica in arrampicata sportiva?
Tiriamo in ballo l’etica quando non sappiamo più dove sbattere la testa. Lo facciamo anche noi arrampicatori, per difendere la nostra coscienza e allontanare i pensieri tristi, ma di che etica parliamo quando il comodino di dolomia, visto da tutti e mai disgaggiato dalla via, decide che è stanco di essere appiglio e sceglie di trasformarsi in maglio schiacciatutto, quando cede una sosta a chiodi “da integrare” su una via storica, quando in seguito a un volo si rompe un maillon da ferramenta abbandonato su una piastrina artigianale con il foro troppo piccolo per ospitare maglia rapida e rinvio?
Etica dell’alpinismo, dell’arrampicata libera o di quella sportiva? Dovrebbero essere regole condivise che mettono un argine alla libertà di agire, perché l’etica mette dei limiti al comportamento umano dettato solo dalla mera convenienza personale. Eppure, spesso sentiamo tremare la terra sotto i piedi proprio quando ci accorgiamo che questi limiti non bastano, o più semplicemente non sono più adeguati al nostro tempo.
Negli anni 90, dire di essere riusciti su un tiro di corda “in libera” significava che si era saliti mettendo i rinvii durante la scalata. Oggi è normale avere “i fissi” in loco e partire con le prime protezioni passate. Per non parlare della ginocchiera odierna che ha sostituito i vecchi lividi sopra il ginocchio. Ancora oggi c’è qualcuno che denuncia sui social, con l’hashtag #laginocchieraèdoping, il fatto che i gradi delle vie, con o senza la protezione in gomma, sono diversi, che non è “valido” partire con i primi rinvii passati e compagnia cantando. È un esempio banale ma sono due diversi modi d’essere che si confrontano e non vuol certo dire che una volta si era più etici. L’importante dovrebbe essere fare sport per un sentito interiore autentico e vivo, con o senza ginocchiera. Se l’arrampicata sportiva oggi è così, è perché “noi” siamo così, anni fa eravamo diversi. Bisogna avere il coraggio di guardare nei crepacci della terra che trema – lo dice Heidegger, perché solo in quel buio, in quei territori inesplorati si possono trovare gli elementi che fanno evolvere i nostri codici.
Chissà se in quegli abissi insondabili e selvaggi si nasconde un’etica che, come l’Unico anello di Sauron, è in grado di domare tutte le sue declinazioni, di trovarle, ghermirle e nel buio incatenarle?
Di sicuro per trovare “l’Unica” Etica che domina tutte le altre è utile risalire la corrente delle tante frammentazioni in cui si manifesta l’attività umana, incluso l’andar per monti con le mani bianche di magnesio. Conservarsi in vita: questa è l’unica vera attività praticata da tutti.
Si perde tempo nell’indagare l’arrampicata sportiva di oggi che con quella degli anni novanta condivide solo il nome, che, a sua volta, con quella degli anni ottanta non condivide nemmeno quello.
La prima protezione, spesso alta, degli anni 90 era il gioco privilegiato dei pochi in grado di rischiare serenamente anche i probabili mesi di infortunio e lontananza dal lavoro nel caso di caduta a terra. Oggi c’è il Beta Stick che permette a tutti di essere presenti, con buona probabilità, il giorno seguente sul posto di combattimento a lottare per una paga mensile. Cos’è cambiato? Tutto! la società, gli arrampicatori, gli strumenti che usano e la pratica stessa. Vale per tutto, anche per l’alpinismo. Rimane ferma l’etichetta, il nome dell’attività, ma non è mai veramente la stessa pratica, differisce sempre un po’, giorno per giorno si adegua al sentire di chi investe il proprio tempo libero sulla roccia.
Basta poco, è sufficiente fingersi sordi al cambiamento per ritrovarsi a difendere un’etica particolare, quella dell’alpinista, quella dell’arrampicatore sportivo, ma anche quella dell’alpinismo in una certa valle o dell’arrampicata sportiva in un preciso territorio. A cerchi concentrici sempre più piccoli si finisce con il difendere il proprio “io” e con esso i propri privilegi. Un’etica che non è più etica ma nostalgia di “valori” ormai scomparsi.
Si chiamava DeLorean, non Etica, la macchina di “Ritorno al futuro” con cui il dottor Emmett “Doc” Brown viaggiava nel tempo.
Heidegger dileggiava tutti quelli che si sono cimentati a scrivere improbabili etiche, mostrando che l’aspetto originario della vita umana è l’agire, non tanto quello già codificato dalla società in “prassi” particolari, quelle che caratterizzano gli ambiti più disparati – sport, lavoro, stato sociale –, ma l’aspetto più generale e fondante dell’uomo, ovvero un certo modo di essere di fronte all’inatteso che disorienta.
Per questo quando parliamo di “arrampicata sportiva” abbiamo finito immediatamente di parlare di Etica.
Lo “sport” con le sue regole ha riempito ogni crepa. È tutto, scritto, convenuto. Non c’è più alcun sguardo nell’abisso, nessuna esplorazione. Per quanto riguarda l’arrampicata sportiva, intesa come sport: siamo al capolinea.
Divenuto sport di massa, oggi ripropone tutti gli stereotipi di quelle attività che piano piano sono passate dall’essere elitarie all’essere “di moda”. Le falesie, quelle belle, sono sempre più scomode e lontane, perché quelle “belle” di ieri, quelle comode, sono segnalate, fin dalla strada asfaltata, con cartelli ad hoc, sono vendute nelle edicole con le guide e rilanciate nelle App dove i più si confrontano. L’economia turistica strizza l’occhio allo sport e propone vitto e alloggio (alcune volte gratuitamente a chi chioda nuovi itinerari) per attrarre ancora più sportivi in zona. Il tam tam mediatico ha già creato i feticci da portare a casa, gadget che sono sempre più lontani dall’originaria performance sportiva. Ecco la foto che hanno tutti con lo sfondo della Val d’Adige e in primo piano il calcare grigio lavorato dall’acqua. Oppure, se sei più atletico, la foto del profilo in controluce sul tiro di 7a nella grande grotta di Kalymnos con mare e isoletta sullo sfondo. Trofei, gadget, appunto, cose da portare a casa (la bacheca del profilo).
E allora via di “furbo da 50 centimetri” all’imbrago, riscaldamento sulla linea con maggior “rating” sull’app, mungendo tutte le protezioni. L’etico nostalgico che si lamenta e chioda distanziando le protezioni apre le porte al furbo da 70 cm, perché scalare un tiro in libera è secondario e legato solo ad una attenta valutazione sulle reali possibilità di liberarlo il giro seguente… altrimenti si passa al prossimo in classifica proposto dall’App che regola e orienta i desideri di massa.
Certo, esagero immaginando un futuro che prima o poi si staccherà anche dalla roccia per finire solo nelle sale indoor, e che al momento è la realtà di pochi arrampicatori. Ma poi, in fin dei conti, non c’è nulla di male se questo modo di vivere l’arrampicata è una via per cercare un sentito interiore autentico e vivo, per sondare il proprio abisso. Di certo, questa è una tendenza ineluttabile ed è difficile entrare nelle motivazioni di ognuno. Il nostro sport è già ostaggio dell’economia che ha ricamato le sue trame sopra il comune desiderio di ricavare gioia dall’attività all’aria aperta.
Parlare di etica, invece, ha che fare con ciò che siamo in modo più profondo, perché l’agire è conseguenza dell’essere – maledetto Spinoza – e viene prima di tutte queste “costruzioni umane” chiamate “alpinismo”, “arrampicata sportiva” e compagnia cantando.
A maggior ragione, in questi tempi dove le innovazioni cambiano velocemente i connotati del vivere, diventa evidente che se esiste un’etica è quella che si manifesta improvvisamente nel nostro comportamento e che ha a che fare con un’etica più ampia, la più universale possibile: un’”etica della terra” direbbe Aldo Leopold.
Un’etica dell’appiglio potremmo dire noi arrampicatori, che le riassume tutte, che non può essere scritta perché è una specie di “istinto comunitario in via di formazione”1.
È un viaggio alla conquista dell’inconscio, un
percorso che inserisce degli obblighi accanto ai privilegi. Ma si vive troppo poco per aver contezza delle nostre azioni e dei vantaggi che queste potranno avere per la società, perché “etico” è solo un comportamento in grado di costruire socialità.
L’appiglio tirato dalle mani di tanti, lui sì! vivrà così a lungo da poter vedere se il concetto proprietario, quello scevro da obblighi nei confronti degli altri, quello che giustifica un determinato comportamento preteso come “etico”, finirà con il tempo a danno o a favore alla comunità. La terra, con la sua etica, nella quale tutti siamo inclusi, dimostra che tutto tende alla differenziazione e dobbiamo metterci nelle condizioni di saper “interpretare questo cambiamento affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi e affinché non cambi alla fine in un mondo senza di noi”2.
La terra, così come la montagna e ogni suo appiglio bianco di magnesio, se ne frega di noi. Vive così a lungo che pur essendo contenta del nostro passaggio rimane indifferente alla nostra scomparsa. In poco tempo è in grado di cancellarci, di sanare le scie tracciate dai climber. Dov’era magnesio, in fretta torna il terriccio. Si aggiusta, rimedia e corrode i tasselli. Rimette in circolo anche l’inox, evolve le pareti, alzandole, sgretolandole o levigandole… fregandosene del primo alto, del chiodo lungo, della sosta da rinforzare, dei tratti friabili lasciati al loro destino e di quelli consolidati con la Sika.
Siamo probabilmente l’unica specie di cui farebbe volentieri a meno. L’unica specie che, pensando di essere elitaria, non ha cura nemmeno di sé stessa.
Ma in arrampicata sportiva, nel 2024, l’unica etica possibile è smettere di parlare di etica e, per quanto ci è possibile, cercare di non costruire tranelli per i nostri simili.
Andrea Tosi
1 Aldo Leopold, Pensare come una montagna.
2 Günther Anders, L’uomo è antiquato.