Storia di un enigma: la prima ascensione di una vetta già toccata dall’uomo
LA CORTE DEI MONTI DELLA DAMA BIANCA
Lande brulle e desolate. Un paesaggio di dolci pendii ma severo, desertico, privo di alberi, radicato solo da arbusti e toppe d’erba sparse a macchia di leopardo su zolle di terra arse dal sole.
Sconfinate distese pianeggianti avvolte da antiche catene montuose con i loro picchi più alti che si stagliano contro l’intenso blu del cielo indossando vesti bianche di ghiacciai, crepacci e nevai.
Un grande vallone di origine glaciale diviso a metà da una morena irregolare e delimitato da due grandi dorsali, con almeno tre picchi rocciosi ciascuna, che lo abbracciano come un grande gigante. Queste terre sono antiche: lo si vede dalle rocce metamorfiche che sembrano testimoniare battaglie di pressioni e surriscaldamenti tra magmi e calcari. Sulla dorsale del lato sinistro orografico si alternano strisce di monti tra il nero e il senape.
In fondo, isolata, si innalza lei, la Dama Bianca: domina tutto il vallone e i picchi rocciosi delle dorsali e, tra loro, si staglia con eleganza imponente.
Si distingue da tutti gli altri monti perché nevosa, candida e pulita mentre i suoi compagni sono rocciosi, cupi e ghiaiosi.
Non si può distogliere lo sguardo da tanta bellezza e in ogni momento, errando per l’alpe, ci si volge e si viene catturati.
KIRGHIZISTAN: “VIRGIN SUMMIT EXPEDITION”
Sono stato “reclutato” per partecipare come guida alpina ad una spedizione esplorativa alla ricerca di montagne sconosciute e mai scalate dall’uomo.
La spedizione si svolgerà in Kirghizistan, una landa desolata di steppe aride e brulle all’estremo confine occidentale della Cina.
È il più piccolo dei limitrofi stati ex-sovietici “delle terre di”, questo significa “stan”. Quindi “la terra dei Kirghisi”, Kirghizistan.
La loro rossa bandiera ha come simbolo il vertice dei pali convergenti della Yurta (la capanna nomade), che tocca il sole con una quantità di raggi gialli corrispondente al numero delle tribù originarie.
Appena fuori da Bishkek, la capitale, i Kirghisi sembrano ancora un popolo di pastori erranti così come si possono immaginare nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Leopardi.
IL CAMION “URAL”
Da Bishkek, dopo due giorni di viaggio, raggiungiamo la frontiera con la Cina e, invece di attraversarla, giriamo a sinistra su una strada sterrata che corre accanto ad un confine fatto di cinque barriere parallele di filo spinato e con pericolanti torrette di osservazione.
Un confine militarizzato. Arrugginito. Vetusto. Di che anni? Sessanta?
Abbandoniamo la strada che segue il confine arrugginito e anche l’ultima strada sterrata: siamo fuori dalla civiltà.
Cominciamo a salire e scendere per colline brulle sempre più ripide, fuoristrada. Il nostro mezzo di trasporto è un Ural, un gran bestione di camion, ex militare sovietico, a tre assi con sei gigantesche ruote motrici che traina un rimorchio: sarà la nostra cucina.
Ad un certo punto scorgo sui visi dei componenti la spedizione espressioni che vanno dallo sbigottimento alla meraviglia, dal timore all’eccitazione. Cosa succede?
Il conducente sorride, ha girato il volante e punta dritto verso un grosso e impetuoso torrente che, a quanto pare, fungerà da strada: siamo immersi in almeno un metro nell’acqua e creiamo onde: sembra di essere su un vaporetto veneziano…anfibio!
DESIDERIO CONTEMPLATIVO
Dopo più di un’ora di traghetto decidiamo di fermarci per allestire il campo base, in una spianata dove sgorga dell’acqua sorgiva. Comincia finalmente l’Alpinismo.
La spedizione, di quattordici membri, si divide in quattro gruppi condotti da noi guide. Cominciamo ad esplorare, in qualità di primi esseri umani, la nostra vallata. Su e giù per monti e ogni sera ritorniamo al campo base.
Decido di prendermi cura degli ultimi, quelli mal acclimatati e meno forti: sono l’ultimo arrivato delle guide e voglio rendermi utile.
In fondo al vallone vediamo la Dama Bianca stagliarsi maestosa ed elegante: continua a cambiare i suoi abiti. Un giorno ha l’austero vestito grigio del ghiaccio, il giorno dopo è tutta bianca di neve, candida come una sposa.
Il capo spedizione è chiaro: nessun nome alle montagne prima di averle scalate. Io la nomino comunque “White Lady”.
LA DIGA
Siamo pronti. Abbandoniamo il campo base per recarci a quota 4000 dove allestiremo il campo avanzato: un luogo molto grazioso tra due morene di pietre scure con un laghetto alimentato da un ruscelletto sorgivo. Le temperature si fanno più rigide e di notte l’acqua del torrente si ghiaccia.
Nei momenti di ozio mi metto al lavoro, come quando da bimbo giocavo a costruire dighe sotto la Marmolada. Devio il corso del torrentello convogliandolo in un piccolo bacino dove costruisco una diga. Al culmine di questa creo una specie di grondaia che permette all’acqua di scorrere veloce e quindi di non ghiacciare: ci sarà utile.
AL COMANDO
Otteniamo informazioni sulla meteorologia, una volta ogni tre giorni, da un telefono satellitare: non sono mai attendibili. Si ragiona allora secondo la filosofia “vecchia scuola” guardando la direzione del vento, la forma delle nubi, l’umidità e la visibilità.
Comunque, siamo già da troppi giorni al campo avanzato, stanchi per la quota, il freddo e le difficili condizioni.
Una sera il capo spedizione viene da me. “Tom, Max non sta bene, non possiamo aspettare altri giorni, voglio che tu prenda il comando della squadra più forte. Domani devi tentare di salire la grande montagna bianca. A me interessa il successo della spedizione ed anche una sola squadra è sufficiente a farci vincere tutti. Ho apprezzato come ti sei preso cura degli ultimi e ti lascio carta bianca per salire con Toni, Kamal e Guy. Non devi preoccuparti di nessun altro, né tantomeno di aspettare altre squadre”.
Sono eccitatissimo. Divento in un rapido frangente la guida che deve dipingere la linea di ascensione sulla montagna emblema della spedizione.
Sono gasatissimo. Emozionato. Non vedo l’ora di cominciare la scalata.
Passo in rassegna la ciurma rendendola partecipe della missione. Sono giovani e potenti: Toni “lo sminatore”, Camal “elvetico-yankee” e Guy, “palestrato” e un po’ pallone gonfiato.
Partiamo all’alba prima di tutti e guadagniamo terreno.
Sono pervaso, quasi travolto dalla grande energia della montagna.
Ogni gesto diventa efficiente ed estetico. Fermarsi per mettere i ramponi è come un “pit-stop” ai box.
Inizia la scalata.
Ci leghiamo in cordata. Il terreno della Dama Bianca si mostra subito molto piacevole: la notte prima è sceso un velo di trenta centimetri di neve fresca che rende la camminata confortevole. Un manto bianco, una tela da dipingere e io sono il pittore.
Essere alla testa della prima ascensione di una montagna così bella è un privilegio indescrivibile. Cerco di impegnarmi a tracciare nel miglior modo possibile. Una buona traccia la si vede solo dopo esser scesi giù. Le diagonali devono essere parallele ed avere quindi la stessa inclinazione. È il principio con cui sono state costruite le strade militari alpine. Ricerco la perfezione sia per una ragione estetica, sia per una ragione etica: tutte le altre cordate della spedizione seguiranno la mia traccia e dovranno trovarla comoda e sicura.
L’ultimo tratto della Dama Bianca è una pala ghiacciata ripida dove continuo a raccomandare la massima attenzione. Un piede in fallo e rischiamo di precipitare negli abissi. Sono bravi.
Poi spiana e, trionfali, ci avviciniamo alla vergine vetta.
Ma ad un tratto un disturbo visivo, qualcosa, un errore nel sistema.
Sembra un pezzo di ferro arrugginito.
Passo dopo passo si delinea e diventa tutto chiaro: ahinoi, è un tripode arrugginito e ribaltato. “Mi spiace tanto ragazzi, non siamo i primi salitori”. Nel dirlo mi si stringe il cuore.
TRIGONOMETRIA ANTIMAOISTA
Quel tripode arrugginito è un geoscopio, uno strumento che permette di effettuare misurazioni trigonometriche per capire distanze e quote delle montagne. Ora comincio a capire meglio. Penso che negli anni ’60 l’armata rossa abbia carteggiato l’intera zona di frontiera con la Cina.
Tornati al campo base si dibatte sulla nostra ascensione e i membri della spedizione teorizzano che il tripode fosse stato calato sulla cima da un elicottero militare.
“Avremmo dovuto calciarlo giù dalla montagna” dice Guy.
La Guida Kirghisa, invece, è dell’idea che i sovietici abbiano scalato la montagna per primi.
Nasce un buffo dibattito che sembra una piccola guerra fredda tra NATO e Patto di Varsavia.
Io colgo l’occasione per capirne di più di trigonometria e di maoismo.
Il capo-spedizione non prende parte alla discussione perché sa che tutte le congetture saranno risolte, una volta ritornati a Bishkek, da Vladimir, il nostro basista, presidente delle guide alpine kirghise ed ex ufficiale alpino dell’armata rossa visto che lui ha accesso a tutti gli archivi storici militari delle zone cartografate dagli anni sessanta.
E così dagli archivi ricostruiamo la verità storica.
È il 1972, un grande elicottero da guerra Mil Mi-6 verde scuro con una stella rossa sulla coda sorvola la vetta della montagna e tenta inutilmente di atterrare. Il forte vento glielo impedisce.
Segue la cresta est, si abbassa, trova un pianoro riparato dal vento e, a cento metri dalla vetta, si avvicina al suolo lasciando che cinque soldati si calino su una grossa fune. Hanno già i ramponi ai piedi e uno di loro si carica sulle spalle il grosso strumento. Dopo aver raggiunto la vetta posizionano il geoscopio, e tornano veloci al pianoro dove vengono recuperati dall’elicottero.
Però i sovietici non avevano dato un nome alla montagna e la spedizione decide di battezzare la mia Dama Bianca “The White Lady” (4768m).
Sia il lettore a scegliere che soluzione dare all’enigma della prima ascensione di una vetta già toccata in precedenza dall’uomo!