Lo “scemo” della placca del forte

Questa mattina tira un vento fastidioso e freddo, da settentrione. Giù per la Valle dell’Adige è il Peler che, giunto all’altezza dell’abitato di Tessari, s’incontra con l’Ora del Garda, che soffia da meridione, e il fresco s’impenna andando ad accarezzare il paretone giallastro della Placca del Forte: un balcone che si affaccia sulla valle dove vedo l’Adige scorrere lento formando un sinuoso serpente d’acqua. È il periodo in cui in montagna si sciolgono le nevi e il fiume è particolarmente carico. Sulla Placca spesso incontro scalatori provenienti dalle province vicine e ascolto accenti,  dialetti, e a volte anche lingue, diversi. 

Lì c’era da qualche anno c’era un mandorlo , proprio all’inizio della falesia: serviva da primo appoggio sulla via Vertical Invader ma, probabilmente dava fastidio, e qualcuno ha pensato bene di tagliarlo lasciando un piccolo ceppo.

Partito a piedi da Caprino sono arrivato in piazza a Lubiara e continuo su per il sentierino che mi porta ai piedi della falesia, quella ho scelto per questa arrampicata mattutina in solitaria. La mattina è grigia e sbuca tra le nuvole un pallido sole . La Placca del Forte è in alto rispetto alla valle ed è la prima ad essere illuminata . Si sente, nonostante il vento freddo, che la primavera sta arrivando con i primi timidi fiori lungo il sentiero. 

Non amo scalare da solo, non per ragioni di sicurezza, ma avere compagnia dà un senso diverso alla giornata. 

Oggi però è diverso, ho voglia di starmene da solo e, in questa stagione, alla Placca del Forte non ci sarà nessuno. 

Arrivo al poggioletto da cui si parte per l’ascesa. Preparo con calma tutto quanto mi serve:  indosso l’imbrago e le gelide scarpette d’arrampicata, bevo un sorso di the caldo dal thermos, infilo il caschetto, spolvero le mani con un po’ di magnesite, passo la corda nel primo rinvio fisso alla base parete. Alzo il piede destro e do il via al miglior divertimento in assoluto… l’arrampicata!

Senza immaginare l’incubo nel quale scivolerò di lì a poco.

Arrivato senza problemi a circa metà parete, dopo aver superato alcuni passaggi che mi piace definire riflessivi (un piccolo strapiombo ogni volta mi mette in crisi e un tratto molto liscio con appigli poco evidenti) la testa comincia a ronzarmi, come se una maledetta vespa si fosse infilata sotto il caschetto. Mi fermo, respiro a fondo, cerco di rallentare i giramenti di testa, ma il ronzio si fa sempre più forte, finché devo fermarmi e assicurarmi alla parete per non perdere l’equilibrio.

Quella nenia sussurrata di voci misteriose, che fino a lì aveva giocato a nascondino coi pensieri che si agitavano nel cervello, all’improvviso si trasforma, un po’ alla volta, in parole, in frasi smozzicate  e, infine, in una cantilena che pare quella di un canto gregoriano…

“Venessiani gran signori – Padovani gran dotori – Visentini magna gati – Veronesi tuti mati – Udinesi castelani – coi cognomi de Furlani – Trevisani pan e tripe – Rovigoti baco e pipe… – a questo punto il mormorio diventa invocazione, quasi una supplica, urlata con voce fessa, con voce stridula e rauca… – …i Cremaschi fa i coioni – i Bresàn tàia cantoni – ghe n’è ancora de pì tristi… – Bergamaschi brusacristi – E Belun? Pòre Belun – te se proprio de nisun”.

Solo adesso mi accorgo che le maledizioni, strillate in un dialetto veneto slabbrato e concitato, esplodono alle mie spalle. 

Mi giro e lo vedo.

Ha capelli rossastri, rasati quasi a zero e tagliati male, che lasciano intravedere cicatrici coperte di sangue secco; il volto è magro, la barba lunga, un labbro rotto per chissà quale sventura. La pelle del torace è tirata sulle costole, che si contano una a una, segnata da profondi graffi, mentre sulle caviglie, nere di fango secco, brillano i segni di quelli che sembrano morsi di pantegane. Quel poveretto se ne sta lì, abbracciato a un costone di roccia e urla nella mia direzione, urla e piange… 

“Veneziani gran signori – Padovani gran dotori – Visentini magnagati – Veronesi tuti mati – Udinesi castelani…”

“Taci! Chiudi quella bocca, maledizione!” urlo io, ben sapendo che quel volto tirato e teso, quegli occhi schizzati di sangue, quelle mani magre ferite a sangue, quello sconosciuto, insomma, non mi darà ascolto… e infatti…

“I Venesiani i xe gran signori par tuto: par el mar, par i palassi, par i ducati, par le góndoe, par la seta, par le ciese piene de altari, par le done bele e par quele brute ma piene de schèi che le se sposa anca senza sentimento…” 

Adesso lo sconosciuto, quel disgraziato, parla piano, sottovoce, a occhi chiusi, cantilenando quelle parole senza senso e muovendo il busto avanti e indietro, con la saliva che gli scivola dalle labbra fin sul petto. 

E piange! Piange lacrime amare .

Solo a  questo punto realizzo: è un incontro proprio strano. Un tipo del genere, scalzo, vestito con abiti vecchi, sdruciti, sporchi e laceri, quasi fosse scappato dall’abbraccio di un orso furioso, che cosa ci fa lì, a metà della Placca del Forte? Aggrappato alla roccia senza attrezzatura, senza scarpette tecniche, senza borsa per la magnesite appesa alla cintura, senza corda e rinvii…

“Ehi, che ci fai quassù? Come sei arrivato fin qui?”

Lui tace all’improvviso, si gira a guardarmi con due occhi stralunati e tristi. Tossisce leggero, con un braccio si asciuga la saliva dal mento e riprende a cantilenare… 

“Andemo a la guera – col s’ciopo par tera – col s’ciopo par man – pim pum pam… pim pum pam… pim pum pam PIM PUM PAM… ANDEMO A LA GUERAAA!!!…”

“Per caso ti sei incrodato?” gli chiedo avvicinandomi.

“Cosa fai senza attrezzatura… ma come si fa ad affrontare la Placca senza scarpette, senza  moschettoni per la sicura, senza corda poi! Ce la fai a venir giù con me?” 

Ormai la mia scalata sulla Placca del Forte è andata a farsi benedire, tanto vale aiutare quel tizio a tornare con prudenza alla base. 

“Senti, adesso vengo lì, ti metto in sicura con una corda e poi, piano piano, torniamo giù, va bene? Vedrai che ce la faremo!”.

Per tutta risposta il tipo abbassa gli occhi, stacca la mano destra dallo spuntone al quale è aggrappato e, fingendo di dirigere un’orchestra, oppure un coro, comincia a canterellare:

“Din don doman l’è festa – se magna la manestra – la manestra no me piase – se magna pan e brase – le brase i è tropo nere – se magna pan e pere – la pera l’è massa bianca – se magna pan e panca – la panca l’è massa dura…”

«Senti, tu» alzo un po’ la voce, «vuoi darmi retta oppure devo andarmene, eh? Lasciarti qui da solo, ad arrangiarti? Guarda che  son venuto sulla Placca per divertirmi. Mica per fare l’infermiere o il pompiere!»

Lui apre a fatica gli occhi, poi la bocca e riprende la sua cantilena dondolante: “Fioca, fioca – i cagni i baiòca – le done le crìa – e i òmeni i scapa via… – Ghe jèra ‘na volta – Pero se vòlta – casca ‘na zuca – Pero se ‘nzuca – casca el bocàl – Pero ‘l se fa mal – casca ‘na fassina – Pero se ‘sassina – casca ‘na zòca – Pero ‘l se cópa…”

Guardo l’orologio. Son fermo da venti minuti, alla mercé di quel pazzo, sperando che non si stacchi dalla parete e non cada di sotto. Poi come lo spiego ai carabinieri che non è stata colpa mia? Che io quello lì me lo sono ritrovato a metà della salita, scalzo, vestito peggio e, all’apparenza, senza alcuna esperienza di arrampicata!

«Ascolta, come ti chiami?»

I singhiozzi di quell’altro sono l’unica risposta.

«Ti ricordi qualche numero di telefono? Vuoi che provi a chiamar qualcuno che ti conosce? Ho qui il cellulare, potrai anche parlargli, dai!»

«Soto la capa del camin – ghe gera ‘n vecio contadin – che sonava la chitara – uno, doi, tre sbara – sbara mi, sbara ti – la me gata vol morir – lassa che la mora – faremo ‘na casa nova, – nova noveta – anca per la so amigheta…»

“È proprio un pazzo, questo qua!” penso. “Adesso chiamo il 112 perché mandino quassù qualcuno che lo sappia far ragionare!”

Sto per comporre il numero, sperando che sulla Placca ci sia campo – non mi sono mai trovato in una situazione così drammatica, ma anche grottesca! – quando, un attimo di disattenzione per chiamare il 112 mi porta a lasciar andare la mano con cui mi tengo alla fune e il vuoto mi inghiotte. Mi par d’essere al cinema, con gli occhi puntati sullo schermo immenso a guardarmi mentre, al rallentatore, cado giù lasciando andar il cellulare che rotola nell’aria assieme a me. Sembra un viaggio infinito e mentre volo alzo gli occhi per vedere dove sia lo sconosciuto, ma la parete sopra di me è sgombra! Vuota! Quello stronzo non c’è più! E io cado, cado lento in cento giravolte, con l’aria che diventa sempre più calda…

Driiinnn…! Driiinnn…! Driiinnn…!

È il suono metallico della sveglia che insiste, insiste (spero che chi ha avuto la bella idea di inventarla sia stato licenziato in tronco!) e alla fine devo aprire gli occhi. Ho ancora in testa quel volo dal cielo, col paesino di Tessari che mi viene incontro a velocità siderale, e anche gli occhi di quel disgraziato.

«Maurizio!» 

È la voce di mia madre… ma cosa ci fa mia madre alla Placca del Forte? 

Lei non ha mai pensato di mettersi ad arrampicare, anche se penso che sia stata lei a mettermi nel sangue questa voglia, questa necessità fisica ed esistenziale di fare dello sport.

E allora realizzo che si trattava di un sogno, un sogno al termine di una notte burrascosa che non dimenticherò tanto facilmente.

«Che c’è, mamma?» mormoro assonnato.

«Dai, forza! Alzati, ché oggi è il grande giorno!»

«Grande giorno di che?» 

«Ma come, non ti ricordi?» esclama mia madre vedendo i miei occhi persi e vuoti. «Oggi hai l’orale degli esami di maturità… fuori dal letto, dai che è già tardi!»

È come il fronte immenso e altissimo di una diga che si crepa, si apre e lascia defluire una massa d’acqua che corre a coprire ogni cosa.

Adesso ricordo ogni cosa! 

Sono due mesi che sto studiando come un forsennato per portar all’esame di maturità una tesina che faccia stupire i commissari. Perché io sono fatto così: non mi piace fare una cosa e basta. Voglio, e pretendo da me stesso, di metterci tutto l’impegno per lasciare gli altri a bocca aperta. Ed ecco perché ho passato pomeriggi interi nelle biblioteche di Verona a cercar materiale per una tesi dal titolo 

“Prima Guerra Mondiale: gli Scemi di Guerra. I processi e le esecuzioni al Forte San Marco di Lubiara”

E un colpo al cuore, non il primo di quella mattina in un’alba piena di stupori. Mi riporta con la mente a metà della Placca del Forte, là dove, in sogno, avevo incontrato quel povero sventurato soldatino, imprigionato nelle galere del vecchio forte San Marco. Forte che ospitò, nel corso della Grande Guerra, milizie dell’esercito italiano coi cannoni puntati verso il fronte veneto/trentino a nord. Lì, a tempo perso, si occupavano anche di imprigionare, interrogare, torturare, processare, condannare e magari anche giustiziare, nel piccolo cortile del forte, gli “Scemi di guerra”. Poveri soldatini che impazzivano, oppure facevano finta, per la paura di morire al fronte: che poi è la stessa cosa. Per scampare alla tragedia sanguinosa delle trincee, dei combattimenti corpo a corpo, delle bombe a mano, delle raffiche di mitraglia.

Allora mi alzo, vado alla scrivania, apro la mia Olivetti Lettera 32, infilo un foglio bianco nel rullo, lo blocco con l’asticciola di metallo e comincio a battere sui tasti… 

Un sogno, e ancora un sogno…

Maurizio Marogna


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