In via Olmo c’era una falesia.
In via Olmo c’era una falesia…
Era sempre aperta ma ci si andava a scalare quasi sempre di sera.
Assunta, era il nome della portinaia che faceva entrare tutti.
Posta in zona comoda all’autostrada, per non perdere tempo si usciva a “Sommacampagna”.
La volante della polizia era spesso appostata fuori dal casello.
«Dove sta andando?»; mi son sentito chiedere.
«A scalare!»; ho risposto.
Mi hanno guardato male e mai come in quella occasione son passato nelle vicinanze di un TSO.
Son ripartito in direzione “corte Gelmetti”: l’allenamento non poteva attendere oltre e avrei avuto il mio bel daffare per spiegare il contenuto del portamagnesio a chi non mastica arrampicata e lavora in divisa.
Erano i primi anni Novanta. Luca Gelmetti, appena tornato da “naja”, aveva messo mano al trapano.
A dirla tutta aveva rispolverato anche il seghetto alternativo per ritagliare un tavolo da ping pong in disuso.
In via Olmo, quella “falesia” c’è ancora. Cresciuta come solo le case rurali crescono, aggiungendo stanze e volumi senza un progetto preciso, allo stesso modo, la “casa del Gelmo” si è sviluppata aggiungendo pannelli e volumi secondo l’umore del momento.
Sì!, perché stiamo parlando del primo vero “muro” veronese degno di questo nome. Il primo ad avere una dimensione superiore a quei piani secanti a 40 gradi, fatti in MDF color legno grezzo, che tagliavano in due i garage di molti climber.
Nato con un paio di pannelli contrapposti, il Muro (maiuscolo non a caso) si è poi sviluppato sino a diventare una vera grotta. I pannelli ancorati con catene e fil di ferro alle pareti si riunivano a formare una struttura autoportante. Erano fin troppo sforacchiati. L’imperativo era quello di mettere in parete quanti più appigli possibili: al diavolo il rischio di indebolire i pannelli!
La parola chiave che non aveva bisogno di essere espressa era: low cost! Perché non c’erano soldi…
Gli appigli? Lasciando perdere gli appoggi realizzati con resina usata per stuccare le piscine, gli appigli erano tutti hand-made… nel vero senso della parola! Si impastavano intrugli marcati “Tenax”, stucchi per marmi o resine liquide – ricordo ancora i nomi: Domo e Tumal – sapientemente miscelati con la quarzite vagliata fine. L’impasto, simile alla pasta di sale lavorata dalle nonne, veniva messo in forma secondo il criterio della minima spesa/massima resa. Nel minor uso di resina si dovevano realizzare quante più prensilità possibili. Ne uscivano cose che un ninja avrebbe lanciato volentieri contro i nemici!
L’evoluzione sarà poi quella di utilizzare la resina per fare un basamento solido alle pietre grippose, trovate prima e bucate poi, portate a casa dai più remoti angoli della Lessinia.
La bulloneria? ovviamente sottodimensionata! 8MM al posto dei soliti bulloni da 10MM. Su questa logica anche i pannelli, rinforzati solo dove serve… anche se, a qualcuno – chiedere a J.P.Fish – è rimasto in mano l’appiglio con tutta la “rosa” di legno intorno tenuta insieme dal “dado con fondello” retrostante. Sono cose che capitano quando si lavora sul limite del dimensionamento! Per fortuna c’erano i materassi di dubbia provenienza a proteggere dalle cadute.
Era comunque tutto molto bello, curato nei dettagli e nelle dediche agli amici che per frequentare la tana del Gelmo muovevano da Brescia o da Vicenza.
Un “mental coach”, molto prima che il “mental coach” venisse teorizzato, era già attivo sulle pareti della grotta:
In quella strana falesia si sono cementate amicizie così come si acciaiavano gli avambracci. Inizialmente, di boulder si parlava poco, c’erano solo giri, lunghi, eterni segnati con adesivi colorati e numerati che arrivavano a portare il numero 50.
Del resto, per fare il grande slam in giornata a Ceredo (Anima mundi, Dies Irae & Australia) bisognava avere avambracci molto capienti in fatto di ghisa – for more info: Gelmetti primi anni 2000.
Si potrebbero dire anche altre cose sugli allenamenti di Luca e sulle sue performance… magari in un prossimo futuro, chissà!
Basti sapere che nel tempo sono apparsi strumenti di tortura innovativi, rigorosamente non brevettati ma non per questo meno efficaci. Il “Pan Gimmo” come evoluzione tridimensionale del pan Gullich è solo un esempio. Un pan da “comprimere” e con “rovesci da tirare”…
Ovviamente, Luca era il padrone di casa anche in fatto di resistenza! I suoi risultati parlavano chiaro sull’efficacia di questa falesia. Risultati rigorosamente appuntati su di un diaro che nessuno ha mai avuto il privilegio di raccontare…
Eppure, quanti climber sono passati di qui…
A distanza di anni, mi sento di dire che quel muro era proprio a immagine e somiglianza del “Gimmo”: concreto, senza fronzoli, essenziale… come gli ancoraggi che lavorano nascosti dalle pareti che tutt’oggi ospitano appigli relativamente moderni.
Perché, bisogna pur dirlo, tanto è cambiato nel nostro sport, ma solo sulla facciata. Dietro al pannello, nascosto, c’è sempre uno spirito pratico alla “Luca” che lo permette. Uno spirito che spesso non ha né tempo né voglia di trovare le parole o altari da cui parlare.
Tutto questo non sarebbe male, sia ben chiaro, se questo spazio lasciato vuoto da chi avrebbe molto da dire fosse destinato al tanto salutare silenzio.
Invece, complice anche l’odierna tendenza coltivata dalla “rete” che permette a chiunque di dire la proria, quello spazio viene occupato da chi è più scaltro e spesso superficiale.
Eppure l’archetipo di Mental coach, Gelmetti, era arrivato sulla questione così in anticipo che nessuno l’aveva avvistato nemmeno all’orizzonte… l’aveva già scritto, lui, sul muro, a beneficio di tutti…
“Solo i pitocchi usano il bordo!”
Solo i pitocchi restano sulla superficie liscia delle cose, semplificano, riassumono, copiano per come possono il valore racchiuso all’interno delle cose.
Via Olmo è stata una fucina. Sì! Non solo di atleti – da coppa del mondo boulder, a dire il vero – ma anche di amici che sono andati a fondo della loro passione senza darsi tanto pensiero se non quello di cercare dentro di sé quel piacere che usciva fuori da ciò che stavano facendo.
Le parole… le hanno lasciate agli altri che nel tempo li hanno apostrofati a turno con parole come: ceredolesi, plasticari, chiodatori, veciassi…
Avevano tempo da perdere… loro.
Andrea Tosi
N.B. Articolo scritto per la rubrica “C’era una volta” del King Rock Journal.
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