Abitare il confine
È notte, dentro una grotta un gruppo di Homo sapiens è riunito intorno ad un fuoco, fuori il mondo è coperto di neve, si odono richiami di animali, rumori di predazione, una pelle drappeggiata sull’ingresso attenua il rumore del vento ed il terrore per l’ignoto.
Cosa fanno: raccontano.
Parlano delle cose accadute, degli stratagemmi usati, degli strumenti da costruire o già costruiti, si raccontano il presente per il futuro: qui inizia la comunità e nasce la cultura, la tecnica (U.Galimberti).
La comunità inizia da una condivisione narrativa, da un racconto che poi diventa formazione e apprendimento, trasmissione di esperienze; identità, appartenenza, condivisione, fiducia, linguaggio.
Certo il nostro mondo è complesso, turbolento, incerto e precario ma secondo voi come doveva sembrare ai nostri progenitori all’alba dell’umanità? Anche loro elaboravano una riflessione comunitaria per abbracciare la complessità del loro mondo: raccontavano.
Il mondo e sempre così: in continuo sviluppo e le nostre competenze non fanno altro che svelarci, raccontarci nuove possibili complessità, nuove cause di turbolenza: siamo ancora dei cavernicoli, abbiamo bisogno di narrare e di essere narrati per comprendere e comprenderci: la sorpresa della scoperta, l’emozione di uno sguardo nuovo.
È da questo che nasce, nella notte dei tempi, la narrazione; si narra qualcosa a qualcuno, probabilmente con una funzione pratica, per trasmettere una conoscenza, un sapere utile ma anche per costruire un ordine, per fondare una memoria; nelle società primitive i racconti erano memoria e identità del gruppo che nel tempo si arricchivano, mutavano, venivano falsificate e reinterpretate, diventavano miti e quindi racconti.
Per noi occidentali la narrazione inizia con Omero, Iliade e Odissea ne sono il fondamento, nascono da un racconto orale impermanente (nel quale il corpo e la voce sono parte integrante della narrazione, una recita degli aedi) per poi, con la scrittura, diventare entità autonoma, tangibile.
Scrivere separa la storia dal presente, apre il mondo all’immaginazione e ci fa abitare in due mondi allo stesso tempo. Narrare significa allora abitare un confine, un limes non definito, uno spazio interstiziale che delimita e separa, e quindi crea, aprendo il mondo all’immaginazione, attivando una osmosi tra il reale ed il fantastico. Del resto l’esistenza, il vivere non è proprio questo? Il regno della libertà, delle possibilità, delle scelte, scelte che derivano dal desiderio, che è poi il motore di ogni narrazione, di ogni trama, perché promette uno svelamento di significato che ci porta ad inoltrarci nel testo connettendo gli eventi tra loro e dandogli un ordine, un significato cercando di arrivare ad una versione significativa della vita.
Ogni racconto ha i tratti dell’allucinazione perché ci fa immaginare, visto che le storie inventate hanno a che fare più con la possibilità che con la realtà, possibilità che riguardano le nostre paure, i nostri desideri. La realtà di un racconto è scritta nella relazione, nel patto tra scrittore e lettore; l’ordine che i racconti danno alla vita nella vita non c’è: le storie non sono ciò che si vive ma ciò che si racconta. [Le storie esistono solo nelle storie; quanto alla vita, essa scorre nel tempo, senza bisogno di creare storie (Lo stato delle cose – W.Wenders)].
Ma la cultura moderna spesso riserva alla narrazione uno spazio subalterno, questo perché l’informazione (di cui ci nutriamo in tempo reale) vive nel presente, nell’illusione dell’oggettività, nel consumo della novità mentre i racconti abitano a lungo nel pensiero di chi li legge e vengono assimilati perché la lettura presuppone uno stato di distensione, di ascolto; la realtà moderna invece richiede uno stato di allerta costante sovrapponendo una spiegazione razionale ad ogni ambito di vita.
Del resto il racconto non generalizza, anzi si nutre del singolare ed ha in sé qualcosa di inquietante, quasi un’anarchia, amplificata dalla sua attenzione verso mondi possibili, realtà parallele rispetto al mondo come noi lo percepiamo, tende alla verosimiglianza, ha un carattere incerto, convoca la meraviglia perché trovarsi in bilico tra noto ed ignoto è uno stato di fascinazione.
Ed è questo stato di meraviglia, di stupore che il laboratorio di scrittura vuole attivare: produrre racconti, inventare trame, vedere con occhi nuovi e quindi narrare mettendo una storia in comune con gli altri, il che significa, in fin dei conti, superare i confini che delimitano la nostra singolarità.
Raccontare interrompendo la densità del tempo dando leggerezza, che affranchi dal quotidiano, che faccia vivere mondi e paesaggi, che sconfigga noia e malinconia arricchendo la realtà di nuove possibilità, nuovi pensieri, nuove emozioni.
Paolo Gaeta