Aprire una via

“Una via è una realizzazione non solo sportiva, ma è anche una forma d’arte. Osservi, elabori nella tua mente una linea attraverso una parete e poi la realizzi”. Fabrizio Manoni da GognaBlog.

E di chi è un’opera d’arte? Dell’autore? Di chi la acquista? Di chi la contempla? Resterà sempre dell’autore ma, nel momento in cui l’opera se ne va per il mondo (venduta, regalata, dimenticata) non sarà più sua, non ne avrà più il possesso: il suo è stato un atto di generosità egocentrica. Ha fatto scaturire dal suo io un’opera e poi l’ha messa nelle mani del mondo.

Questa mi sembra una buona chiave interpretativa anche per l’aprire/chiodare una via, attività che parte sempre da un’idea, una fantasia, una visione. 

Secondo W.Bion (uno dei più importanti psicanalisti del ‘900) noi non creiamo i pensieri (che in qualche modo esistono già), noi, a un certo punto, ‘diventiamo capaci’ di pensarli. Ecco secondo me questo vale anche per un via che c’è, forse c’è sempre stata, ma a un certo momento qualcuno diventa capace di vederla, la sente sua e a quel punto la crea. 

La via a quel punto diventa un ‘oggetto soggettivo’ (D.Winnicot psicanalista britannico), cioè un oggetto che esiste già nella realtà oggettiva, ma che ad un certo momento vedo e faccio mio.

Una via quindi contiene l’individualità dell’autore, il suo piacere di indicare-si una nuova direzione, una nuova prospettiva: una via è un’idea che diventa reale, tangibile, una fantasia che si materializza, come un’opera d’arte e, come ogni opera d’arte, ha una sua unicità, una sua aura.

Allora di chi è una via? A chi appartiene? Che cosa può rivendicare l’autore? Un’idea, una visione che, nel momento in cui la realizza e la rende tangibile, già più non gli appartiene: la via è sua ma non la possiede, l’ha messa nelle mani del mondo. È come un figlio che è mio ma che poi lascio andare perché il possesso uccide, mortifica, non fa crescere, immobilizza.

Aprire una via è un atto di condivisione, altrimenti la nascondo, non la attrezzo, non la rendo praticabile. Ed è nel condividerla che probabilmente sta il suo vero senso, ed anche la gratificazione, di chi l’ha aperta proponendo ad altri la propria idea, non temendone il giudizio ma cercando una complicità, una conferma.

Una via allora è di chi la percorre, di chi la scala. Nei brevi, o lunghi momenti, in cui c’è in comunione, in cui ci si confronta, in cui ci dialoga, la via è sua.

Del resto, credo che nessuno possa possedere una via, al contrario, è la via, la falesia, la parete a possedermi. È lei che mi obbliga ai movimenti, è lei che determina il mio arrampicare. 

Basta guardare a quanta determinazione, quanto impegno si mette nel cercare di liberare una via con ripetizioni, tentativi, errori, voli, cadute, botte: si è ‘posseduti’ e fin che non si arriva in catena non ci si dà pace, siamo sua proprietà, siamo in sua balìa. 

Si realizza un legame tra la via e me che arrampico, un legame che confonde possessore e posseduto e che trova il suo essere in questo vortice di proprietà.

Ma la vita è entropia, gli umani, la natura, le cose sono in continuo cambiamento, in continua mutazione e là dove questo non accade c’è la stasi, l’immobilità, il declino, la morte. Quindi una via non ‘curata’ si ammala, degrada, perisce. I materiali invecchiano, si usurano (o diventano obsoleti), la parete si fessura, si modifica, la parietaria la conquista, l’edera se la prende e la via scompare, viene dimenticata e con lei scompare anche l’idea, la visione di chi l’ha chiodata/aperta. Quindi prendersi cura di una via significa preservarne la memoria e quindi rendere omaggio all’ideatore mantenendo nel tempo visibile, tangibile, utilizzabile la sua visione. Significa renderla ancora, e più a lungo, condivisa. Pensiamo ai sentieri. Senza manutenzione scompaiono perché la natura è continuo cambiamento e siamo noi gli intrusi che cercano di portarvi un qualche ordine (se così si può dire) ma questo significa un paziente e continuo lavoro di aggiustamento, di adattamento, un artigianato della costanza. I sentieri così da sempre continuano a indicarci una strada, a favorire il camminare, il viaggiare, l’andare in parete, ma è la cura, la manutenzione a tenerli vivi, a renderli ancora utili e condivisi. La stessa cosa vale per una via che altro non è che la prosecuzione di un sentiero, un sentiero verticale (mi viene in mente un bel titolo assai evocativo ‘La prima via è sempre un sentiero’ di Maurizio Marogna).

Certo su un sentiero i materiali sono meno caratteristici, mentre quelli su una via ne sono parte. E allora quei materiali a chi appartengono? Ma a chi appartengono i pigmenti di un dipinto? Il marmo di una scultura? Sono parte stessa dell’opera, dell’idea e allora nel momento in cui li ho utilizzati per realizzare l’opera non sono più miei, appartengono all’opera, testimoniano la visione: sono da subito di tutti, appartengono al mondo. Quando colloco del materiale in parete questo è funzionale a definire la mia epifania, la mia visione, la incarnano, la rendono reale e visibile. Resta mia l’idea: i materiali sono provvisori, deperibili, non contano.

La mia affermazione non sono i materiali ma la via e il pensiero che l’ha realizzata e la cura, la manutenzione, servono proprio a preservare, a dare continuità a questo, a rendere più a lungo testimonianza della mia creatività, della mia competenza, della mia abilità. Il segno del mio passaggio non sono i materiali ma l’idea che li ha collocati e chi fa in modo che questi resistano al trascorrere e all’usura del tempo è un mio alleato, un continuatore della mia opera. 

Allora cosa resta? 

Resta il tracciato, resta la linea di arrampicata (che i materiali sostituiti non modificano, non alterano, non mistificano). Resta il nome che ho dato a testimone del mio operato. Il nome è il racconto, il ricordo: il nome è mio. Perché quando do un nome, quando ‘nomino’ una cosa, la faccio esistere, la porto (la tengo) in vita e finché qualcuno nominerà la via, finché qualcuno la percorrerà, io non cesserò di esistere.

Del resto, niente è mio per sempre. Tutto è impermanente, siamo tutti impermanenti, viaggiatori, vagabondi del Dharma che cercano una qualche armonia con l’universo e, a volte, con una via che ci attende, che vogliamo arrampicare, rendendo così omaggio all’idea di chi per primo l’ha realizzata (e che si fottano i materiali).

Paolo Gaeta


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