Boulder problem

Un pomeriggio infrasettimanale, nonostante una pioggerella primaverile, con Elena, valida compagna di allenamento, decidiamo di “marinare” il King Rock, per raggiungere una interessante falesia della Val d’Adige.

(Omissis) è una parete magnifica di roccia calcarea che s’innalza sopra i verdi vigneti e le rive sinuose del fiume. Conosciuta per la sua varietà di vie, offre avvincenti sfide-gioco per l’arrampicatore di medio livello. Le pareti, a tratti verticali, a volte leggermente appoggiate, richiedono precisione e tecnica, rendendo ogni salita una modesta ma unica esperienza. Il panorama dal crinale sommitale poi, con la vista sulla valle sottostante e i monti in lontananza, ripaga di ogni sforzo.

Elena, ricci capelli castani e occhi pieni di determinazione, è una delle arrampicatrici più risolute che conosca. La sua snella figura si muove con agilità sulla roccia, e la sua pazienza è infinita. Sempre pronta a incoraggiarmi, sa sempre quand’è il momento di darmi spazio per “chiudere il tiro”.

Come al solito, ho già in mente cosa vorrei provare.

Alla via ci ero passato sotto svariate volte, senza mai degnarla di troppa attenzione. In fin dei conti erano solo tre spit. Per me non era una vera e propria via. Insomma un divertissement, nulla di più. Semplicemente un boulder problem, ma da affrontare con la corda per non rotolare lungo la Val d’Adige.

Oggi invece mi fermo a osservare con maggior attenzione questa lavagna bianca, leggermente strapiombante e senza tracce di magnesite.

Ammetto che, semplicemente a guardarla, non ci capisco nulla. Tabula rasa. Mi sembra tutto liscio e difficilmente immagino di potermi muovere su quella parete.

Mi scaldo bene dopo la pioggerella pomeridiana che ha bagnato le placche e, senza grandi aspettative, decido di fare un giro.

Messo a fuoco il muretto inizio a vedere escrescenze e appigli, tutta roba piccola neh…, ma insomma comincio a immaginare i movimenti.

Uno, due, tre tentativi. Non riesco ancora ad unire i singoli passi e questo non è poi male, ma quello che m’impensierisce è soprattutto l’uscita, visto che devo fare un lancione a una buona presa o inventarmi una qualche soluzione alternativa.

Mi devo riposare mentre Elena, forse stanca di farmi sicura, ripete un’altra via.

Il vento spazza la valle e asciuga perfettamente la roccia.

È fantastico essere fuori all’aperto durante un pomeriggio in cui tutti lavorano. In fin dei conti siamo stati molto fortunati: saliti alla falesia, nonostante la leggera pioggia di primavera, e sperando in vento e schiarite, dopo un’ora siamo già con i moschettoni in mano. Riprovo. Ora non riesco a passare neanche nei primi movimenti… vabbè mi sa tanto che questo boulder problem resterà tra i progetti futuri.

In realtà non voglio mollare. Così mi tiro su fino al famigerato terzo spit e studio l’uscita… mah forse posso tentare un movimento azzardato e per me completamente nuovo.

Durante la cortissima calata alla base, visualizzo tutti i movimenti e la méthode di questo boulder: finalmente mi è tutta chiara.

Pulisco bene le scarpette da performance. Abbondo di magnesite liquida. Attendendo che l’alcool evapori, dico ad Elena che sarà l’ultimo tentativo del giorno visto che fra un po’ viene sera.

Parto.

Mano sinistra su una netta ed evidente tacchetta, mano destra su un rovescio

appena accennato. Alzo i piedi dalla cengia su appoggi svasi orientati verso il basso, ma il più in alto possibile. Alzo la mano sinistra su un buon appiglio laterale abbastanza profondo. Moschettono il primo spit.

Con la mano destra cerco davanti a me una rughetta che si confonde maligna fra le altre, sempre poco evidenti.

L’equilibrio è precario. Velocemente, con la mano sinistra, spingo più in alto possibile fino a prendere un appiglio laterale da pinzare con pollice, indice e medio. Qui, nei precedenti tentativi, non sempre riuscivo a bloccare e cadevo.

Ma ora non cado.

Alzo il piede sinistro su un buon appoggio di spigolo ma scomodissimo perché la torsione del ginocchio è impedita dalla parete sotto la mia verticale. Se fossi più piccolo forse sarebbe meglio, ma se qui riesco a stare in equilibrio, è già un buon traguardo.

Sollevo il piede destro su uno svaso rivolto verso il basso ed evito di moschettonare il secondo spit e, in maniera dinamica arrivo, con due dita della mano destra, su una microscopica tacca orizzontale lunga tre, quattro centimetri e profonda meno di uno.

I tentativi precedenti naufragavano quando cercavo di accoppiare anche la mano sinistra su questa tacchetta, o quando rilanciavo la mano destra su un’alta tasca risolutrice, lontana circa settanta centimetri dalla maligna tacchetta.

Moschettono il terzo spit.

Riesco ad alzare il piede sinistro, in opposizione, su uno spigolino poco pronunciato.

Ora allargo la mano sinistra su un cubetto all’estrema sinistra. Devo comprimerlo lateralmente, tirandolo alla morte verso di me, e, contemporaneamente, alzo esageratamente il piede destro in opposizione su un laterale.

In sintesi sono come in croce con le gambe ed i piedi che spingono entrambi in opposizione, mentre le braccia stringono in compressione.

Provo una contrastante sensazione: precarietà e calma interiore.

Ora la grande idea risolutrice. In opposizione sui piedi riesco ad agguantare con la mano sinistra un altro appiglio laterale appena accennato. É posto molto a destra e devo spingere in compressione: diciamo che il corpo fa una specie di arco con baricentro a sinistra.

Finalmente riesco a rilanciare la mano destra dalla piccola tacca alla presa risolutrice e poi velocemente accoppio con la sinistra.

Il battito e il respiro si normalizzano e l’arrampicata prosegue facile per altri quindici metri di 6a fino alla catena. Durante questi metri di decompressione, fisica e psicologica, sentimenti di gioia, di serenità e di armonia con il mondo mi pervadono.

In fin dei conti è solo un settea dove solo i primi metri fanno davvero il grado.

Durante la calata, grido euforico ad Elena di festeggiare con una birra, magari anche due, alla solita vineria del paese di fondovalle.

La soddisfazione della giornata, oltre a quella di avere strappato alcune ore di arrampicata a un tempo bizzarro che minacciava pioggia, è stata quella di scoprire i movimenti, a dire il vero poco intuitivi, e di risolvere il passaggio con la tecnica, per me nuova, della compressione. Il fatto che non ci fossero tracce di magnesite ha dato alla salita quel gusto di avventura, sia pure limitata a pochissimi metri.

Un pomeriggio perfetto, suggellato con la riuscita su una via da me trascurata troppo a lungo.

Massimo Bursi


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