I busi di Avesa

Lodovico, mio caro figlio,

lo so che ancora non sai leggere ma ti scrivo comunque. 

Ti scrivo per i giorni un cui potrai scorrere queste righe e sorridere, magari emozionarti, pensando agli anni della tua infanzia ad Avesa, quando abbiamo esplorato ogni vajo laterale di quella che i “Contrada Lorí” chiamano “la valeta incantà”.

Oggi, mentre te ne stai addormentato sotto una tamerice nella penombra di Kalymnos, mi è venuta voglia di raccontarti dei “Busi di Avesa”.

Devi sapere che è stato Vignola, uno dei mostri sacri della valle, ad accendere la mia immaginazione raccontandomi un po’ di storia geologica della valle e quindi adesso, ogni volta che mi trovo ai piedi della liscia falesia strapiombante, torno indietro di milioni di anni e vedo i frangenti del mare schiantarsi con candide schiume contro la parete scolpendola nella sua forma attuale: una parabola storta. 

D’altronde sono anni che valuto la sensibilità dei miei allievi (tu li chiami amici di lavoro) chiedendo se riescono a scorgere il fossile di conchiglia in cima alla classicissima via dei busi. Mancavano solo le onde del Vignola per chiudere il cerchio.

Ma quale è la storia dei busi di Avesa?

É una storia raccontata in maniera completa dal buon Beppe Pighi, che ha raggruppato tutti i roccioni di Avesa in una guidina deliziosa, da collezionisti intenditori, che ti consiglio di leggere. La puoi trovare nella nostra taverna assieme alle mappe dei posti che abbiamo esplorato con la mamma e del sentiero che avevo aperto per te durante il Covid. 

Però qualche notizia, un po’ più personale, te la voglio dare.

Siamo certi della comparsa di alcuni boulderisti molto forti nel periodo dell’uomo di Neandertal: si racconta che per raggiungere la sommità del loro riparo preistorico “i Pighi”, così si chiamavano le popolazioni autoctone, avessero effettuato le prime ascensioni della via dei Busi, in libera e senza scarpette.

Alla fine degli anni ‘70 i discendenti dei Pighi misero in moto anche ai Busi lo storico movimento di scissione dagli alpinisti e cominciarono il “gioco arrampicata”. 

Alcuni di loro, tra cui Stefano Tedeschi, sono rimasti attaccati alla parete da quegli anni e continuano a ruotare in senso orario, e con moto perenne, attorno al fossile centrale disegnando un cerchio del diametro di dieci metri.

Nei primi anni ‘90 si raggiunse, ad opera del Quinzanese Nicola Sartori, detto “Nicolino”, la massima difficolta mai scalata dall’essere umano nei primi boulder della storia, tra cui il celebre “strassabuele”, ideato da Andrea Tosi, primo 10a al mondo (oggi rigradato 10b+): l’avvenimento creò la leggenda del Leone di Avesa e del Cane di Quinzano, leggenda che descrive il campanilismo tra le i due paesini. Pensa che tutt’ora le belle fanciulle Avesane non hanno il permesso di varcare il crinale del Monte Ongarine per recarsi a Quinzano dai loro amati. 

Adesso è molto importante che ti racconti la differenza tra i Busi alti e i Busi bassi. Due posti distinti anche a livello floristico: i Busi Bassi s’immergono nell’orno ostrieto, il bosco del nostro territorio prevalentemente costituito da frassini ornielli e carpini neri.

I Busi Alti sembrano una falesia mediterranea e si immergono in un bosco di pini neri piantati dall’uomo ma non accettati dal terreno che li ha ammalati, riempiti di nidi di processionaria e resi vulnerabili ad ogni piccola avversità meteorologica. 

A detta di chi come me li ama, i Busi di Avesa rappresentano la massima bellezza raggiungibile da una falesia: il tenero calcare argenteo ad “emmental” è unico e conosce simili solo a Finale Ligure.

La falesia è piccola, bassa e raccolta. Corrisponde al concetto di “falesia cucciola” e questo ha permesso che fosse preservata da orde di arrampicatori che, snobbandola, hanno permesso, a chi davvero la ama, di goderne in maniera esclusiva. 

Tranne una volta. 

Durante il “covid”, tu eri appena nato, i Busi, hanno subito eccessi, soprusi e sporcizia. Questo perché in quel periodo, a causa del lockdown, ci si poteva muovere solo all’interno del proprio comune ed Avesa fa parte del Comune di Verona sin dal tempo del fascismo.

Per questo allora un’orda di arrampicatori hai invaso queste deliziose falesie, le ha riempite di spazzatura e dopo aver mangiato, quei barbari hanno pure sputato nel piatto lamentandosi della lunghezza delle vie e degli ancoraggi!!! 

Sono stati loro ad usurare i mitici fittoni del Vignola facendo scorrere la corda direttamente all’interno e non utilizzando fettucce e moschettoni. Si ringrazia quindi quell’amico del Bandindon, che, a seguito della deplorevole vicenda gli ha dedicato la via “zecche da zona rossa”.

Adesso è tornata la quiete: gli scaligeri si sono ritirati. 

Caro Lodo adesso ti saluto e spero, quando leggerai questa mia lettera, di continuare a condividere con te le esperienze magiche legate a quei luoghi: bere alla fontana del Leon, passeggiare per il sentiero, ammirare al fresco l’opera colossale dei cavatori, scalare assicurati ai fittoni più resistenti del mondo (320kN) e poi scendere a valle andando finalmente a “pocciare” i piedi nel Lorí.

Tommaso Dusi


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