E avendo molto spesso avuto in vita mia il medesimo sogno, ora in una forma ora in un’altra; il sogno, ripetendo a me sempre la medesima cosa, diceva: «Socrate, fa’ musica».
Platone. Fedone, 60E – 61A.
Temps perdu.
Scuote la testa e ripete: “temps perdu”.
Non che qualcuno del gruppo gli abbia chiesto qualcosa.
Quel vecchietto ha l’aria di un cercatore di funghi e noi siamo alle prese con un boulder difficile da capire. Il boulder si chiama “Festin de pierre”, e solo il tentativo di tradurlo dal francese ci mette in crisi. Figurarsi salirlo: una tragi-commedia degna di Moliére.
A scandire le battute di questa messa in scena c’è un pensionato che forse starebbe meglio nel centro di Parigi, a controllare i cantieri aperti per le Olimpiadi. Invece è qui a fare il direttore d’orchestra non richiesto mimando nell’aria la sequenza corretta per salire il blocco.
Clac, tlac, clac.
Con questi suoni accompagna la descrizione del boulder. La bici da uomo color antracite, con cestino portapacchi arrugginito, è in equilibrio dietro di lui su una specie di cavalletto centrale. Ritto in piedi supera di poco il metro e sessantacinque e forse anche l’età che porta si aggira nei paraggi. Le mani piccole e nodose assumono nell’aria la stessa forma che prenderebbero nello stringere gli appigli raccontati dai clac, tlac emessi con la regolarità di un metronomo.
Clac, tlac, clac, dice lui.
Sciaff, sbanf, paff replichiamo noi con il rumore delle nostre mani che prendono a schiaffi gli svasi del boulder. I nostri tentativi producono suoni che terminano con la “F”, e così, come le labbra per produrre le consonanti fricative lasciano uscire l’aria, allo stesso modo le mani lasciano sfuggire gli appigli.
Didier, l’umarell dei blocchi, il direttore d’orchestra vestito con canottiera di cotone a costine, dirige i nostri assalti al blocco e descrive la sequenza con suoni definiti, precisi, che non a caso finiscono con la “C” occlusiva e sorda.
Clac, tlac, tlac.
Un, due, tre.
Forse spazientito dai nostri tentativi senza ritmo, pesca dal cestino posteriore della bici un paio di Boreal Ninja sfatte e risuolate, un ritaglio di “paillasson” con scritto “bienvenue” e uno strano straccio che assomiglia a una stella cometa. Dal lato stella, lo strofinaccio tiene insieme un mix di magnesio e collofonia: il “pof”. Un laccio tiene in forma il composto a formare una palla. Dall’altro lato lo strofinaccio è libero, così da poter essere usato come una frusta per eliminare dagli appigli la polvere in eccesso e i granelli di sabbia dalle scarpette risuolate con la “Stealth” di “Five Ten”.
I pochi capelli stinti che ha in testa sono lunghi e raccolti insieme da un codino portato molto basso sulla nuca. Sorride sotto i mal curati baffetti bianchi e decide che è ora di insegnare musica: quella che serve per salire il blocco.
Pof, pof, pof, batte con la stella sugli appigli.
Sciaf, sciaf, sciaf, con la coda per pulirli meglio.
Un, due, tre.
Clac, tlac, clac.
Seguendo una sua musica interiore in ¾, arriva facilmente al top del masso. Un appiglio preso di mano destra, un piede sinistro in appoggio e un piede destro in aggancio di tallone; compongono la prima battuta. Innalzamento del bacino e altro appiglio mano sinistra, piede destro centrale e piede sinistro alto; completano la seconda battuta.
“Festin de pierre” si sale così, al ritmo di valzer. Il primo accento forte cade sulla mano che stringe, i due “battiti deboli” che seguono sono i piccoli appoggi spinti dai piedi. Altra mano in alto e due piccoli passi… Zum, pà, pa. Zum pà, pa…
Didier, con la sua canotta d’altri tempi, riappare da dietro il blocco appena salito. Prima di infilare i piedi nei sandali si ferma a guardarci.
In un italiano incerto spiega: “je ne volev pas dire que perdete tempo. Je dis che de già dal détacher il piede da terra, a la deuxième nota du boulder, vous êtes de già fuori tempo. Vous l’avez perdu, perso! Il tempo, quello giusto per “Festin”. Se non comprendete pas la musique, non grimperete jamais bien. Et alors: bonne musique”.
Ci sorride, mette nel cestino le scarpette, lo zerbino e il “pof”. Con i sandali ai piedi riparte spingendo sui pedali della bici. Svanisce nel nero silenzio del bosco.
Il sogno, intriso di vaghi ricordi, finisce così.
Da qualche tempo a questa parte sono alla ricerca di una relazione tra l’arrampicata e la musica e le letture che anticipano il sonno in questo periodo hanno sempre a che fare con note e spartiti. Didier, il local della foresta di Fontainebleau che ha agitato la mia nottata, si è sicuramente formato nei silenzi della foresta, non certo nei fumosi bar che ospitano gli avvinazzati. Per certi versi è questo un sinonimo a garanzia del fatto che avrà voluto dire qualcosa di significativo in merito a musica e arrampicata. Anzi, meglio, ha voluto indicare qualcosa che nella sua evidenza tende a sfuggire ai più.
Forte di questo sospetto mi ritrovo a scomporre l’arrampicata e le sequenze delle vie in modo grafico. Creo mappe delle vie, rappresento appigli e appoggi nel loro divenire senza fare schizzi verticali che riportano fedelmente le rugosità che spingo con i piedi e stringo con le mani. Compongo note su un pentagramma immaginario. Disegno vie che girano in 4/4, le più comuni, quelle classiche. Vie nelle quali ad ogni battuta corrisponde un deciso innalzamento del bacino. Moduli composti da quattro semiminime dello stesso valore, e quindi dal movimento regolare dei 4 arti che danno ritmo alla scalata. È l’andamento base. Quello che fa seguire alla ricerca verso l’alto di due appigli, spesso posti alla stessa altezza, l’innalzamento dei due piedi. Mano su buon appiglio (tempo forte della prima nota), altra mano su appiglio discreto (tempo debole), appoggio “concreto” con un piede (tempo mezzo forte) e appoggio qualsiasi con l’altro (tempo debolissimo). Un, due, tre, quattro… e un, due, tre, quattro… il modulo è questo. Ci si rannicchia sotto gli appigli e ci si distende per una nuova battuta in 4/4.
Le variazioni sono ammesse. L’intermedio, per esempio, o il doppio passo, sono crome, note da 1/8, movimenti più rapidi che si compongono insieme a completare le pulsazioni della battuta. Resta comunque questa musica la più “canonica”, la più suonata, la più semplice e banale.
Altre vie invece girano al tempo di 3/4, a triangolo, come la tipica progressione che si adotta in strapiombo. Sono vie dove il grado di difficoltà cresce e spesso ci si trova oltre la verticale. La nota che batte il tempo forte è il vertice del triangolo occupato dalla mano che sale a stringere un appiglio a cui segue il piazzamento dei due piedi a far da base per il seguente innalzamento. L’altra mano sale sulla nuova nota e, di nuovo, i due piedi cominciano a scovare i relativi appoggi per un nuovo equilibrio. Zum, pà, pa… zum, pà, pa… e si sale verso la catena. È il tempo del valzer, o del minuetto. Una danza con la roccia associata a un motivetto che canticchiamo inconsciamente, un continuo saltellare da una posizione laterale all’altra.
E poi…poi si sale di ritmo, l’arrampicata diventa estrema, difficile, minimal, senza spazio per fronzoli. La notazione musicale diventa complessa ed è meglio passare a un tempo 2/2, dove le note diventano, appunto, minime. Ad una mano che muove e comanda il movimento si associa un solo piede che si posiziona solo per poter chiudere il braccio all’immediata ricerca di un altro appiglio. Tempo forte sulla mano, tempo debole sul piede. Un appoggio, un appiglio, altro appoggio e altro appiglio. Un, due, un, due: al ritmo di marcia verso la catena. Ma qui siamo su gradi altissimi, poco tempo per ballare, per essere armonici con la roccia. La velocità di esecuzione si prende tutta la scena e la progressione diventa sincopata, briosa e scattante.
Così, in questi spartiti che compongo, trovo una giustificazione al perché, quando scalo, mi saltano in mente delle canzoni. Spontanee, come richiamate da una certa armonia che si crea tra un movimento e l’altro. Irrompono nelle mia testa, nel silenzio della falesia, queste melodie che mi accompagnano mentre danzo con la pietra e con lei inizio a fare musica.
Ezio Bosso l’ha ripetuto in ogni suo concerto: “la musica si fa insieme”.
Mi risolvo pensando che tutto nasce da un dialogo tra stati d’animo: quello di chi scala e di chi lo assiste trattenendo la corda e quello del minerale che ci tocca ed è contento di farlo. La roccia, a suo modo, ci abbraccia e ci allaccia in un ballo a tempo di musica, come un divenire, come un processo di conoscenza di sé infinito. Nascono così suoni inediti, che non sono già codificati in parole, in significati di dominio pubblico. Sono suoni intimi, suoni privati che ci parlano di noi anche quando ci sembrano estranei e finiscono appesi sulla corda, in resting, in attesa di essere compresi e accettati.
L’arrampicata, come la musica, “è il fatto di non essere mai contenti, ma di essere felici di esserlo”: sono sempre parole di Bosso che maestro lo era sicuramente, più del Didier del mio sogno.
Per questo forse ci piace salire e ripetere i tiri come fosse sempre la prima volta, oppure l’ultima, cambierebbe poco. Perché siamo sempre alla ricerca di parti del nostro essere che ignoriamo di avere. Cerchiamo qualcosa di noi nell’incertezza che lega insieme un appiglio all’altro, o una battuta all’altra, sia in un movimento in 4/4 o in 3/4. Cerchiamo un’armonia da canticchiarci dentro, un motivetto che dica qualcosa di noi in modo inedito.
Sbagliava Freud: noi climber non ripetiamo i tiri perché rimuoviamo. Al contrario, rimuoviamo per poter ripetere, per poter vivere di nuovo e ancora quella musica già sentita altre volte. Certo, in modo sempre leggermente diverso, con qualche nota inattesa da integrare e digerire nelle prossime battute, nelle prossime ripetizioni.
Ma questo è un altro sogno e a condurlo non è Didier… è Ludwig van Beethoven.
Andrea Tosi