Le parole ci parlano. Ognuna porta con sé un bagaglio di richiami che ci risuonano dentro al di là del significato specifico. Le parole trasmettono un messaggio che ci comunica molto di più di quello che esse dicono.
Ad esempio catena: “elemento di collegamento formato da anelli metallici connessi resistente a trazione”. Ma catena è anche un sostantivo associato ai concetti di schiavitù, oppressione, prigionia in poche parole alla perdita di libertà.
Stare ‘in catene’ come simbolo di servaggio e di umiliazione (vedi Ungheria).
Però.
Però quando arrampichiamo, arrivare in catena senza aver sostato sulle protezioni intermedie, lo chiamiamo ‘liberare una via’ e qui il significato subisce un ribaltamento, un capovolgimento e la catena da simbolo di sottomissione, di schiavitù si trasforma, si tramuta. Saliamo ‘in libera’ per arrivare alla catena, arrampichiamo liberi per incatenarci e quando arriviamo in catena liberi, e soddisfatti, lo siamo: dallo sforzo, dalla tensione, dal risultato.
Arrampichiamo in progressione e non a caso ‘catena’, oltre che dal latino catena(m), ci arriva anche dal greco kath-èna che significa “uno dopo l’altro”, allusione agli anelli (maglie) che si succedono in fila.
E questo facciamo quando arrampichiamo: inseriamo uno dopo l’altro degli anelli (rinvii) nelle piastrine dei fix, insomma costruiamo una catena che parte da chi ci assicura e si chiude quando arriviamo in catena e ci caliamo.
Là dove i tiri si fanno difficili con-cateniamo una sequenza trovando una continuità, mettendo ‘uno dopo l’altro’ i movimenti, incatenandoli nella memoria.
Si potrebbe dire che arrampichiamo incatenati alla roccia, incatenati agli spit, incatenati ai movimenti.
E questo essere ‘incatenati’ ci rende liberi e armonici nell’arrampicare.
La catena allora diventa uno strumento che ci porta altrove rispetto al suo più letterale significato e diventa supporto di libertà, crea una connessione tra la roccia, noi e chi ci assicura. È un ordito (non a caso detto anche catena) che scalando tessiamo lungo la via e che crea un intimo legame con chi ci assicura. Tessiamo una tela, costruiamo un legame, realizziamo una catena e quindi una via la ‘facciamo’ non la ‘chiudiamo’.
Del resto ‘fare’ richiama il costruire, il sommare, il mettere insieme gesti ed emozioni nel tempo. Fa intravedere un pensiero che si reifica, che diventa tangibile e che tesse un ordito sulla roccia.
Mentre chiudere è come una sentenza: si chiude una porta, si chiude una storia, si chiude la bocca a qualcuno (o chiudiamo la nostra in mancanza di idee). Ha un che di definitivo ed è vicino al dimenticare. Non s’intravede il progetto forse appena il ricordo, ma la porta è chiusa, incatenata.
Paolo Gaeta